CONFRATELLI ILLUSTRI
GIAN FRANCESCO ALBANI
dal 19 Dicembre 1775 al 15 Settembre 1803 Cardinale Vescovo e Governatore di Ostia e Velletri
Nominato Decano del Sacro Collegio e Vescovo di Ostia e Velletri non volle optare per la nostra cattedra perché per ordine di Clemente XIV era priva della giurisdizione temporale. Fu Arciprete Liberiano e Prefetto della Concistoriale.
MONS. ETTORE MORESI
Ettore Salvatore Moresi nacque a Velletri il 12 agosto 1873 e venne battezzato dal parroco D. Spiridione Bertolini nella parrocchia di S. Michele Arcangelo. I suoi genitori furono Nicola Moresi e Geltrude Picca. Dopo le scuole elementari entrò nel seminario vescovile di Velletri e venne ordinato sacerdote il 21 marzo 1896 nel santuario della Madonna delle Grazie da mons. Giovanni Maria Iannoni vescovo suffraganeo, alla presenza di don Francesco Scoppietti arciprete del capitolo e del canonico D. Angelo Fabiani. La prima destinazione fu la parrocchia di S. Michele Arcangelo. Vi arrivò il 3 aprile 1902. Trovò una cura d’anime particolarmente disastrata sia dal punto di vita materiale che spirituale. Dovette fare uno sforzo notevole per ricompattare quella comunità alla quale diede le prime energie del suo essere sacerdote. Uno dei suoi primi obbiettivi furono i giovani: creò per loro numerose aggregazioni nelle quali dargli preziosi fondamenti per la loro formazione cristiana e di vita. Nacque così il ricreatorio Silvio Pellico. Una grande scuola di vita, gli insegnamenti di Pellico furono per Moresi preziosi per inculcare ai suoi giovani il culto della patria. Da qui partirono una florida squadra di ginnastica, la Velitrae, che nel 2004 ha compiuto il suo centesimo anno di età e quella grande realtà veliterna che è la Banca Popolare del Lazio.
- La cassa agricola operaia Pio X
Mons. Moresi legò il suo nome ad una delle più importanti realtù economiche veliterne. La Banca Popolare del Lazio da tutti conosciuta come Pio X. Per questo paragrafo ci è stato prezioso il lavoro del prof. Renato Mastrostefano sulla nobile istituzione cittadina edito nel 1984. Agli inizi del XX secolo l’idea della cooperazione aveva fatto numerosi proseliti mentre saliva al soglio di Pietro il patriarca di Venezia Sarto che revocò il divieto che Pio IX fece ai cattolici di essere impegnati attivamente nella vita pubblica. La societá veliterna in quel tempo era in larga parte formata da agricoltori, artigiani e operai che non sempre erano in grado di provvedere autonomamente alle carenze con un’attività finanziaria ausiliaria e che domandavano protezione per le loro modeste ma essenziali esigenze. Il Silvio Pellico promosse questa struttura finanziaria che prese il nome di cassa agricola operaia Pio X. Nella prima delibera ufficiale, il 26 giugno 1904, vi si trovano i nomi di tre sacerdoti: don Francesco Ricci, don Mario Mingarelli e don Ettore Moresi, tutti canonici della cattedrale. I primi avevano l’incarico di revisori dei conti mentre Moresi era consigliere. La cassa inizialmente fu affidata ad illustri e illuminati personaggi veliterni ed ebbe un rapido e rigoglioso sviluppo. Il cardinale Luigi Oreglia di Santo Stefano elargì ben mille lire per costituire il capitale iniziale integrando quello costituito con le quote sociali pari a 500 lire. Poiché le categorie di soggetti meno abbienti erano abbandonate a se stesse a far causa comune con il proletariato incombente dei primi anni del secolo, la cooperazione assicurava una risposta concreta e consentiva uno strumento di emancipazione ed orientamento democratico delle masse popolari, ponendo l’accento sulle potenzialità di autogoverno che offriva sul versante economico. Gli scopi della nascente banca veliterna erano in primo luogo quelli di una assistenza, di mutualità finanziaria ma anche di procurare introiti al ricreatorio fondatore per consentirgli l’attuazione dello scopo di nascita: quello di fare attività caritativa e sociale. La cassa agricola operaia aveva tra i fondatori, oltre ai tre sacerdoti, alcuni cittadini veliterni, fra tutti il primo presidente Vincenzo Remiddi che con il consigliere Felice Menicocchi versarono 539,10 lire. “I rapporti tra chiesa e stato”, diceva Moresi ai suoi giovani che tornavano dalla grande Guerra, “debbono essere di destinazione senza separazione e di coordinazione senza confusione, deve regnare tra i due poteri una ordinata armonia paragonabile a quella esistente fra il corpo e l’anima”. Chiari erano i riferimenti alla dottrina di Leone XIII stabilita e ben definita nella lettera enciclica “Immortale Dei”. Durante la grande guerra, il Silivio Pellico si era svuotato dei giovani che erano stati chiamati alle armi. Alla Pio X, per mancanza di forze giovanili, si era preferita una direzione meno rigida di quella di mons. Moresi ma fedele alle dottrine liberali di opposizione alla chiesa che tolsero alla banca il bel volto che aveva avuto dalla sua nascita. Infatti nel 1920 fu sfiduciato l’intero direttivo. In quell’anno la squadra ginnica del ricreatorio Silvio Pellico, la Velitrae, conquistò il primo posto a Roma.
- La Velitrae -
Moresi forse aveva letto le opere del padre Barnabita Semeria o ne aveva sentito parlare. Era parroco di S. Michele Arcangelo quando nel 1904 ebbe l’intuizione che con la ginnastica si potesse dare ai giovani un impegno sano che li formasse non solo nel carattere ma anche nel fisico. Fondò dunque una associazione alla quale, non a caso, diede il nome di Velitrae per identificarla con tutta la città. Ad insegnare i primi rudimenti di questa antica e affascinante disciplina venne chiamato il prof. Nobili la cui opera diede i suoi frutti tanto che, in brevissimo tempo, i praticanti della ginnastica in seno alla Velitrae furono 60. Il vincolo con l’oratorio cattolico si rinsaldò ancor più quando Moresi venne nominato canonico parroco della cattedrale. In questa veste guidò in perfetta simbiosi il circolo S. Filippo Neri e la Velitrae. Moresi era uno strenuo difensore della morale cristiana. Amava i giovani e li voleva aperti, franchi, generosi e spontanei, disciplinati nel corpo e nello spirito. Generoso quando occorreva, impegnato a sostenere gli oneri finanziari dell’associazione ma anche severo con chi tradisce la fiducia sua e del prossimo. In lui i giovani troverono un padre, un amico, un confidente, un maestro di vita religiosa e civile. Un ginnasta un giorno gli chiese: “qual’è la data precisa di fondazione della Velitrae?”. Rispose: “il 4 aprile 1904”, e poi aggiunse: “insieme alla banca Pio X”. Moresi intendeva evidentemente riferirsi allo stesso anno in cui, insieme ad altri, aveva costituito il benemerito istituto bancario che, nell’arco del tempo, non fece mai mancare il suo prezioso sostegno alla Velitrae. L’11 febbraio 1906 si ha traccia dal Nuovo Censore del primo saggio della societá chiamata “squadra del ricreatorio Silvio Pellico” ma, nella realtà, già Velitrae. Il cronista, oltre a descrivere gli esercizi eseguiti dai ragazzi, definisce raffaellesca la loro divisa. In quella manifestazione fece la sua comparsa un complesso musicale di 50 elementi diretto dal maestro Sormati: il Concertino. Nel 1908 la Velitrae ruppe ogni indugio e si presentò al campionato ginnico internazionale di Roma in Vaticano dove conquistò due medaglie d’oro: una per la classifica a squadre ed un’altra.… perché a marciato a piedi da Velletri a Roma. Alcuni pensarono che quei baldi giovanotti che si incamminarono verso la capitale festeggiati lungo il percorso dalle popolazioni che via via incontravano, l’avessero fatto per spavalderia o per risparmiare un po’ di soldi. In realtà avevano preso alla lettera l’ultimo articolo dello statuto del S. Filippo Neri che tra le varie componenti dell’attivitá ginnica prevedeva anche le passeggiate. Nel 1913 il prof. Nobili rinunciò alla direzione sportiva ed arrivò il prof. Francesco Serafini. Serafini insegnava al Massimo di Roma. Era preparatissimo. Fu una figura carismatica della Velitrae che portò gli alteti a raggiungere traguardi di prestigio nell’arco di trent’anni in cui rimase istruttore. “Sei... Sei...”, era il grido col quale i ginnasti della Velitrae si salutavano. Tutto aveva avuto origine da una strofetta: “All’osteria n 6, paraponzi ponzi po’ / professore tocca a Lei...!”. Si trattava di un invito rivolto a Serafini, grande intenditore di vini, ad assaggiare quello che i ginnasti compravano quando, durante le trasferte, terminavano le scorte. Solo se Serafini dava l’ok si beveva altrimenti si pasteggiava ad acqua. La grande guerra vide partire per il fronte alcuni ginnasti della Velitrae che perirono. Essi furono: cap. Celestino Cenciarelli, medaglia d´argento; sottotenente Francesco Carboni; bersagliere Giovanni Fortunati, medaglia d’argento; finanziere Vincenzo De Rossi, medaglia di bronzo. La salma del capitano Cenciarelli tornò in città solo nel 1924, il costo del trasporto venne sostenuto da mons. Moresi a nome del S. Filippo Neri. Nel 1920 la società riprese la sua attività classificandosi al primo posto al concorso regionale della F.A.S.C.I. (Federazione Associazioni Sportive Cattoliche Italiane). Nel 1921 la Velitrae al concorso internazionale di Roma si presentò aggueritissima conseguendo il premio di primo grado. Nel 1922 la Velitrae fu ad Asti dove prese parte ad un concorso internazionale essendo stata scelta dalla F.A.S.C.I. ha rappresentare il Lazio. Moresi, su un suo biglietto da visita, scrisse al capostazione Orlando Bertarelli per chiedere l’applicazione delle tariffe ridotte. La richiesta diede buoni frutti perché ad Asti andarono ben undici ginnasti guidati al prof. Serafini. Nel 1927 la Velitrae si affiliò alla Federazione Ginnastica Italiana, nel 1928 gareggiò a Rieti dove riportò il premio di primo grado e così anche a Milano. Nel 1929 la Velitrae gareggiò a Napoli: premio di grado assoluto e debutto di Italo Zaccagnini. Nel 1934 il regime non volle che i sacerdoti fossero ai vertici di societá sportive e quindi Moresi fu costretto a dimettersi. La presidenza passò a Giuseppe Zaccagnini che la tenne fino al 1967. Durante il suo lunghissimo mandato la società raggiunse traguardi notevoli. Due coppe Buriani, titoli italiani e debutto in maglia azzurra di alcuni ginnasti provenienti dal vivaio della societá. I fondi per coprire i costi di gestione arrivavano da mons. Moresi, mentre lo sponsor era il circolo S. Filippo Neri che si era affiliato alla Associazione Cattolica Italiana nel 1909. Nacque per questi scopi anche la filodrammatica parrocchiale che debuttò in teatro co “I bocchi ‘n so’ pe’ tti!” di Pio Zaccagnini. Nel 1941 la guerra ormai incalzante bloccò non poco le attività e il prof. Serafini lasciò il suo incarico per trasferirsi a Roma. Lo sostituì l’olimpionico Romeo Neri, 2 ori a Los Angeles 1932. Dopo la guerra Velletri era una città fantasma. La palestra di S. Clemente era ormai inservibile, i ginnasti si misero subito all’opera per reperire una nuova palestra e ridare vita alle attività. Nel 1955 alla Velitrae venne data la palestra del ricostruito liceo Mancinelli. Nel 1957 la Velitrae ottene l’organizzazione della finale regionale allievi di ginnastica artistica che si tenne allo stadio comunale. Nel 1958 mons. Moresi insieme a Don Quinto Ciardi benedì la palestra della Velitrae finalmente ristrutturata. Fu il suo ultimo incontro con la società. Nel 1960 in occasione dell’apertura delle olimpiadi romane, la Velitrae tenne un accademia di ginnastica in piazza del Comune per salutare il tedoforo che si incamminava verso la capitale. Da quel momento in poi, sotto la guida di vari presidenti, la societá ha raggiunto i cento anni di attività con un medagliere pieno di prestigiosi riconoscimenti tra questi le stelle d’oro e d’argento al merito sportivo.
PRESIDENTI
1904 - 1934 Mons. Ettore Moresi
1934 - 1967 Giuseppe Zaccagnini
1967 - 1980 Fernando Mattoccia
1980 - 1990 Aldo Ricci
1990 - 1992 Salvatore Ladaga
1992 - 1998 Giorgio Tagliaferri
1998 - 1999 Alfiero Casadonte
1999 - .... Stefano Dorigo
PRESIDENTI ONORARI
Cav. Giuseppe Zaccagnini
Rag. Fernando Mattoccia
- Il fascismo e il processo-
Moresi ebbe molti avversari perché suo era il monopolio dell’educazione della gioventù. Questa sua prerogrativa lo fece stare sempre sul piede di guerra. Molti gruppi di sovversivi pronti a far tumulti ebbero come bersaglio Moresi che vedevano circondato da giovani onesti, fermi nella loro fede, operosi, amanti di Dio e della patria. Erano pochi i sobillatori ma potenti, sempre gli stessi, pronti a cambiare il colore della camicia, ora verde, ora rossa, ora nera secondo il vento. Moresi ebbe perció a che fare con i liberali assertori della concorrenza, con i massoni del tutto anticlericali che su i principi illuministici e deistici pretendevano di demolire il vecchio ordine di cose e ricostruire uno nuovo, coi bolscevichi che andavano inneggiando ai loro maestri Lenin e Marx, con i socialisti intenti ad organizzare una società senza classi. Riguardo poi alla guerra che si preparava questi gruppi erano neutralisti mentre D’Annunzio e Mussolini interventisti. Moresi, in questo particolare momento della sua vita, era bersagliato da tutte le varie fazioni politiche cittadine: i liberali lo incolpavano come massone e i massoni come liberale, i bolscevichi come socialista e questi come bolscevico e così chi lo accusava di essere guerrafondaio e chi neutralista nemico della patria. Questo fu l’inizio di un momento particolarmente delicato della sua vita. Egli fu al centro di un vero e proprio scontro che sfociò in un vero e proprio processo. In una lettera conservata presso il nostro archivio vescovile (Sez V, titolo XI) datata 20 dicembre 1926 si legge una difesa a spada tratta di Moresi. Proprio in quell’anno veniva compiuto un attentato contro la vita di Mussolini. Dopo una manifestazione pubblica alcuni giovani fascisti si recano al palazzo vescovile per inscenare una squallida contestazione contro Moresi reo di non aver esposto il tricolore che non aveva nemmeno in casa. C’erano lì altre bandiere, quelle delle sue associazioni cattoliche e del mitico San Filippo Neri. Dopo pochi giorni sul Popolo di Roma e su L’Impero apparvero articoli gravemente diffamatori verso Moresi dove era chiaro l’odio che alcuni nutrivano verso di lui e chen con dichiarazioni false e tendenziose, cercavano di incolparlo. Rischió di essere purgato. Forte della stima di cui godeva Moresi decise di rivolgersi direttamente al duce. Mentre un altro sacerdote, il canonico Celestino Amati, scrivendo al cardinale Basilio Pompili vescovo di Velletri (A.V. V, Sez. V, Tit XI) lo difese usando parole di massima stima e a Moresi scrise: “Io protesto, monsignore carissimo, protesto in nome dell’antica amicizia che ci lega, protesto in nome del sacerdozio in lei calpestato e misconosciuto, protesto in nome della parrocchia che l’adora ed in lei umiliata e vilipesa”. Rivolto al cardinale Pompili, Amati scrisse: “Lo salvi eminenza”: Il vescovo convinto dell’innocenza di Moresi mandò a Velletri un visitatore con lo scopo di raccogliere testimonianze sul suo operato. Mons. Palica viceregente di Roma raccolse sia da parte del clero che dal laicato, solo parole di stima e ammirazione.
- Lo scontro con Renato Guidi -
L’autore dei due articoli diffamatori era Renato Guidi, benemerito direttore della biblioteca comunale. Moresi, il 1 novembre 1926, in una lettera gli fece notare che tutta la compagna diffamatoria non era rivolta a lui ma al S. Filippo Neri e chiese le pubbliche scuse altrimenti avrebbe agito per vie legali dandone mandato all’avvocato Mariano Pieroni. Non si ottenne nulla e il 12 novembre 1926 Moresi sporse querela contro Cecilio Settimelli e Carlo Curcio entrambi direttori e redattori dei giornali L’Impero e il Popolo di Roma. Motivandola disse che gli articoli portavano frasi come “losca figura di prete noto per la sua vile opera, per il suo atteggiamento nefando, vile e deleterio di disfattista, di barattiere della religione” ed altre pesanti insinuazioni. Venne accusato di aver trasformato il S. Filippo Neri in un covo di antifascisti invece di fare una meritoria opera di educazione patriottica. I direttori porsero a Moresi le loro scuse e così dovette fare anche Renato Guidi.
- L’angelo tra le macerie -
Intanto in Italia soffiavano venti di guerra e Velletri l´8 Settembre 1943 conosce la furia devastatrice di un bombardamento. Alle 12.10 le fortezze volanti alleate colpirono Piazza Mazzini e le zone circostanti, anche la Basilica di S. Clemente di cui D. Ettore era Parroco dal 6 Gennaio 1919 e canonico dal 1913 venne ferita. Inizia per Velletri la pagina della sua storia. Dieci lunghi mesi che ridussero il centro urbano ad un cumulo informe di macerie circa l´80 % dei danni e il 100 % delle distruzioni. Mons. Ettore Moresi e Padre Italo Mario Laracca furono veri angeli tra le macerie. La popolazione veliterna grazie a questi due benemeriti sacerdoti riuscí a vivere raminga nelle grotte del territorio. D. Ettore secondo quanto scrive nel volume diario Tra le Rovine di Velletri P. Italo Mario Laracca nonostante la sua veneranda etá non si sottrasse ad estenuanti pellegrinaggi per le campagne cittadine per portare aiuti e conforto. Il 20 Marzo 1944 con dolore ed intima sofferenza consegná a P.Raffaele Bitetti s.i la Sacra Immagine della Madonna delle Grazie che per ordine del Cardinale Enrico Gasparri doveva essere trasferita a Roma in salvo. Mentre l´oro lo nascose in cattedrale.
- L’oro della Madonna -
“Dove mettiamo l´ oro della Madonna?”, si chiesero mons. Moresi e don Giuliano. Poi, chiusa la Cattedrale, poggiarono la scala al baldacchino barberiniano e Giuseppe Manciocchi, il sagrestano, salí a metterlo nel tabernacolo cosmatesco. Moresi però nei giorni seguenti prese a pensare che lì l’oro non era proprio al sicuro. Tra l’ottobre e il novembre 1943, insieme al sagrestano e a don Fernando De Mei, lo fece spostare sulla cupola della cappella di S. Gerardo. Un giorno mentre Giuseppe era tranquillo in sagrestia, entrò un tedesco con il mitra a tracolla e con la rivoltella che gli pendeva a fianco. Il rumore degli scarponi spaventò Giuseppe. Pensava all’oro ma invece quel soldato voleva solo ascoltare la messa. Allora Giuseppe per distrarlo si mise ad indossare i paramenti di mons. Moresi pronti per la messa. Dovette guadagnare tempo mettendosi a cercare la berretta di Moresi. Il suono dell’allarme lo salvò da questa situazione non certo facile.
- L’elezione ad arciprete e la nomina a vicario generale
L’ultima pagina della vita di mons. Moresi é quella del suo vicariato generale e della quasi contemporanea arcipretura del capitolo. Il cardinale Clemente Picara, il 31 luglio 1946, pochi mesi dopo la sua presa di possesso si rivolse al cardinale Francesco Marmoggi, prefetto della sacra congregazione del concilio, chiedendo se potesse nominare il canonico Moresi parroco della parrocchia della cattedrale quale suo vicario generale. Il quesito veniva posto perché la nomina di Moresi che aveva una cura d’anime andava a cozzare con una norma dell’allora vigente codice di diritto canonico. Il cardinale Marmoggi non ebbe alcuna difficoltà a dare la sua approvazione per l’emissione del decreto, consigliando di sentire anche la congregazione concistoriale se ancora ci fosse qualche problema. Moresi, però in una lettera autografa del 31 luglio 1946 conservata nell’archivio vescovile di Velletri (sez. III, tit 1), disse che l’atto di nomina al governo della diocesi lo confondeva perché non si riconosceva in grado di assolverlo. Continuando Moresi disse che si sentiva confortato dalla guida illuminata nella persona del cardinale vescovo e per questo accettava l’oneroso incarico. Furono anni in cui Moresi non conobbe respiro. Per la diocesi di Velletri che all’epoca si estendeva fino alle porte di Terracina, ebbe una sollecitudine e un amore che non conobbero limiti. A S. Oliva a Cori furono riportate agli antichi splendori le pitture in affresco. Furono avviati i lavori di restauro della collegiata della Pietá che si prolungarono fino oltre al 1953. A Borgo Sabotino venne ampliata l’angusta chiesa, a Campomorto e a Borgo Faiti furono costituite civilmente le parrocchie oltre a quelle di Doganella di Ninfa, di Le Castella, di Latina Scalo e di Tor Tre Ponti. A Latina e a Cisterna di Latina per soddisfare i bisogni della popolazione furono erette due nuove parrocchie dedicate la prima a S. Maria Goretti e l’altra a S. Francesco d’Assisi. S. Maria Goretti fu iniziata il 19 ottobre 1953 quando la martire della purezza fu proclamata patrona dell’agro pontino mentre quella di S. Francesco d’Assisi fu portata a compimento dal suo successore mons. Primo Gasbarri. S. Maria Assunta a Cisterna di Latina era andata quasi totalmente distrutta. Erano anche state distrutte le chiese di Santa Maria Intemerata a Lariano e dei SS. Pietro e Paolo a Cori. Quella di Cisterna di Latina venne ricostruita conservandone la pianta e adeguando il sacro edificio per quanto fu possibile alle esigenze estetiche moderne. S. Maria Intemerata a Lariano ebbe una nuova sede sull’area donata dal comm. Saverio Santovetti e venne inaugurata dallo stesso cardinale Micara nel 1950 con l’affidamento all’ordine della Madre di Dio. La chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Cori fu ricostruita seguendo una sobria linea architettonica moderna solenne e pacata che richiama lo stile romanico. Questa fu progettata dall’architetto Carlo Pasquale ed aperta al culto il 29 giugno 1952 dal cardinale Micara. A queste chiese già esistenti distrutte e ricostruite completamente bisogna aggiungere la nuova chiesa di Latina Scalo voluta dalla numerosa popolazione del luogo. Anche le chiese di Velletri conobbero l’interessamento di mons. Moresi. Santa Maria in Trivio vide riparati i danni interni, ultimati i lavori della facciata e delle pareti esterne. S. Lucia vide il suo soffitto restituito all’antico originale splendore. Anche il SS.mo Salvatore vide la costruzione del nuovo campanile e della casa parrocchiale distrutta dal bombardamento del 22 gennaio 1944. S. Clemente era, per mons. Moresi, al centro del cuore. Dal 1919 al 1947 quando ne lasciò la cura pastorale a mons. Giuseppe Centra vi aveva celebrato centinaia di battesimi, di matrimoni e amministrate centinaia di cresime ed ora vederla ferita con i resti penzolanti di quello che era stato il magnifico soffitto a cassettoni, con il catino dell’abside squarciato e pericolante e con i frammenti dell’antico coro dispersi lo faceva piangere. Nel 1951 tornò risuonare l’organo, anche il seminario fu oggetto delle sue premure, i lavori iniziarono nel 1946 e terminarono nel 1954. E così dopo quattro anni, i ragazzi poterono tornare da Norma mentre il rettore, mons. Marafini, inaugurò la nuova sede alla presenza dello stesso Micara. Nel 1953 Moresi si dimise dall’incarico di vicario generale che venne affidato a mons. Primo Gasbarri, vescovo titolare di Tendesi, con la qualifica di ausiliare. Il cardinale Micara lo nominò canonico della cattedrale al posto che fu di don Arturo Avanzini. Il 26 ottobre 1960 mons. Ettore Moresi morí dopo essere stato dal 1902 al 1919 parroco di S. Michele Arcangelo in Velletri, dal 1919 al 1947 canonico parroco della cattedrale di S. Clemente nella stessa città, fondatore e primo presidente della Velitrae e del circolo S. Filippo Neri, vicario generale della diocesi dal 1946 al 1953. Il rito funebre, celebrato nella basilica di S. Clemente, fu solennissimo presieduto dal cardinale Clemente Micara alla presenza di tutti i sacerdoti della diocesi e con la partecipazione dell’intera città. Il feretro fu portato a spalla dai vecchi ginnasti e una folla imponente lo seguì commossa per le vie cittadine fino al cimitero dove fu tumulato nella tomba di famiglia. Mons. Moresi è stato anche presidente dell’opera pia Berardi. Il prestigioso ricovero per anziane inabili al lavoro voluto dal munifico Agostino Berardi che volle affidare la sorveglianza al vicario protempore della diocesi, ha ricoperto l’incarico di amministratore della mensa vescovile e dei beni della sagrestia della cattedrale. Non aveva la tecnica del ragioniere ne la bravura e l’acutezza dell’economista di professione. Egli teneva tanti libretti bancari e tante buste, i soldi che vi poneva rappresentavano le entrate e quelli che vi levava le uscite. Così andavano avanti i tanti libretti con le loro piccole somme e nello stesso modo procedevano le buste che riempivano il suo cassetto. Moresi era un amministratore semplice ma onesto, senza grandi affari ne vistosi investimenti. Quando era necessario far quadrare i conti Moresi provvedeva con il suo denaro.
Le ultime ore
Pochi istanti prima di morire, dopo che padre Italo Laracca lo aveva confessato, lo venne a visitare mons. Guarnacci che solito allo scherzo gli disse: “ancora stai qui”. Dopo un sorriso l’esistenza di Ettore Moresi si concluse.
MONS. GIUSEPPE CENTRA
Giuseppe Centra nacque il 12 marzo 1914 da Clodoaldo e Onorina Fabiani. Venne battezzato il 19 marzo 1914 nella chiesa di S. Michele Arcangelo di Roccamassima. Fino alla quarta frequentò la scuola elementare in paese, dalla quinta studiò a Velletri. Entrò nel nostro seminario dove frequentò le classi ginnasiali mentre il liceo classico lo frequentò al Mancinelli alloggiando presso il prozio mons. Angelo Fabiani. La licenza liceale la conseguì al Tasso di Roma. Entrò al leoniano di Anagni, venne ordinato sacerdote il 24 luglio 1938 nella villa del seminario di Norma insieme a don Angelo Cassandra da mons. Salvatore Rotolo, vescovo ausiliare. La sua prima messa la celebrò a Roccamassima, la prima destinazione fu la parrocchia della cattedrale come viceparroco Volse il suo ministero a favore dei giovani delle associazioni esistenti in parrocchia. Nel 1940 fu nominato parroco di S. Michele Arcangelo fondando, in collaborazione con il maestro Leoni, una schola cantorum e l’opera vocazioni ecclesiastiche per aiutare i giovani seminaristi bisognosi. Nel 1944 fu sfollato a Roccamassima e poi a Lanteria. Al suo ritorno a Velletri si trovò in difficoltà perché la chiesa e la canonica di S. Michele Arcangelo erano inagibili. Intorno al 1944 si iscrisse alla facoltà di lettere de La Sapienza di Roma. Nel 1947 successe a mons. Ettore Moresi alla guida della parrocchia della cattedrale di S. Clemente. Venne obbligato a lasciare l’università. Si dedicò allo sviluppo delle associazioni parrocchiali e introdusse in parrocchia il movimento dei Focolarini. Nel 1954, per disparità di vedute con il cardinale Micara, lasciò la parrocchia. Fu un momento molto duro che segnò in modo particolare la sua vita. Si rifugiò dai Focolarini a Trento e poi a Pompei. Nel 1958 tornò a Velletri e viene accolto con molta freddezza da diversi confratelli. Visse dando ripetizioni di latino e greco. Fu anche supplente di italiano, latino e greco. Nel 1962 fu insegnante di religione, assistente dei medici cattolici, dei maestri cattolici e cappellano dell’ospedale. Nel 1966 iniziò ad aiutare in cattedrale per le funzioni e il servizio liturgico. In varie località tenne gli esercizi spirituali a sacerdoti, suore e laici. Nel 1967 diede inizio a riunioni serali di teologia per adulti. Nel 1974 pubblicò il volume: “Maria SS.ma, modello d’unità”. Nel 1975 pubblicò “L’opera e la parola di Dio nella storia d’Israele - Itinerario dell’uomo verso Dio”. Nel 1977 fondò l’istituto di scienze religiose che dal 1984 ha sede nella chiesa di S. Lorenzo. Compare la malattia che lo avrebbe portato al sepolcro. Ricostituì il terz’ordine francescano e fondò il movimento cristiano culturale (i capiscioni). Tenne vari corsi a radio Delta. Nel 1988 celebrò il suo giubileo di messa e venne eletto amministratore diocesano nella vacatio tra Gomiero ed Erba. Nel 1989 il vescovo mons. Andrea Maria Erba lo nominò vicario generale. Nel 1990 l’istituto di scienze religiose fu riconosciuto dalla C.E.I. . Il santo padre nel 1991 lo nominò protonotaro apostolico. Morì il 5 aprile 1993.
DON SILVESTRO RADICCHI
[Don Silvestro Radicchi] Silvestro Radicchi nacque a Giulianello di Cori l’8 aprile 1899 da Giuseppe e Zenaide Prosperi, dopo aver frequentato nella scuola del paese le prime tre classi elementari, entrò nel seminario veliterno. Compiuto il corso ginnasiale e conseguita la licenza presso il Mancinelli entrò nel 1915 presso il pontificio collegio leoniano di Anagni. Nel 1917 éfu chiamato alle armi nel 3° reggimento di artiglieria da fortezza. Prese parte alla campagna di Francia, trovandosi tra le truppe della ritirata dalla Marna. Tornato in Italia venne mandato sul monte Grappa. Si congedò nel 1920. Tornato in diocesi completò gli studi e il cardinale Basilio Pompili lo ordinò sacerdote il 15 luglio 1923. Dopo gli studi teologici fu inviato viceparroco di mons. Ettore Moresi a S. Clemente. Nel 1925 venne nominato economo del seminario, l’anno successivo fu mandato arciprete parroco di Giulianello. Nel 1934 il cardinale Gasparri lo richiamò a Velletri per nominarlo parroco di S. Lucia. Nel 1947 il Micara lo nominò parroco di Norma. Si ritirò dai Missionari del Sacro Cuore a Narni alla fine del 1950. Fu anche parroco delle loro chiese. Nel 1965 mons. Pintonello lo invitò a tornare in diocesi nominandolo cappellano dell’ospedale. Nel 1968 mons. Punzolo, amministratore apostolico della diocesi, dopo aver udito il capitolo gli conferì il canonicato nella basilica cattedrale di S. Clemente. Morì a Velletri nel 1982, dopo aver redatto un interessante volume documentario intitolato: “Conosci il tuo paese: il castello e la chiesa di Giuliano” edito nel 1972 e un interessante studio sull’assistenza ospedaliera a Velletri rimasto inedito.
PADRE ITALO MARIO LARACCA
Italo Mario Laracca nasce a Minturno (LT) il 22 Luglio 1904 da Giovanni Laracca e Francesca Zambarelli. La vocazione somasca cresce in lui grazie all'esempio dello zio Padre Luigi Zambarelli. Il percorso della sua formazione inizia a Velletri proprio in quella S. Martino che sarà la sua vita. Nel 1920 lo troviamo a Treviso presso l'Orfanotrofio di S. Maria Maggiore, nel 1921 è all'Istituto Usuelli di Milano come Probando. Il 30 ottobre 1922 è novizio a S. Alessio all'Aventino a Roma, il 31 Ottobre del 1923 emette la professione semplice ed inviato di nuovo all'Usuelli di Milano. Nel 1924 è Prefetto dei Ciechi a S.Alessio all'Aventino a Roma. il 31 Ottobre 1926 emette la professione solenne. Nel 1927 è inviato vice ministro al Collegio Gallio di Como. il 19 Agosto 1928 nel duomo di Foligno è ordinato sacerdote e inviato Ministro degli Orfani a Santa Maria in Aquiro a Roma. Nel 1932 è a Milano come Rettore del Probandato viene poi richiamato a Roma in Santa Maria in Aquiro. il 19 Luglio 1935 si laurea in Diritto Canonico. il 2 Ottobre 1935 succede a Padre Francesco Salvatore alla guida della Parrocchia di S. Martino in Velletri. Nel 1946 è richiamato a Roma come Rettore degli Orfani a Santa Maria in Aquiro e nominato Procuratore Generale dell'Ordine, sempre nello stesso anno è nominato Rettore della Casa Generalizia. Nel 1948 di nuovo a Velletri come Superiore e Parroco di S. Martino. Nel 1954 è decorato Medaglia di Bronzo a Valor Militare. Nel 1964 pubblica la prima edizione del Tra Le Rovine di Velletri seguono una serie di lavori tra cui la storia di S.Martino pubblicata per il terzo centenario della presenza somasca a Velletri. Nel 1982 lascia la guida della Parrocchia per raggiunti limiti di età. Nel 1993 riceve la cittadinanza onoraria veliterna. Scompare il 14 Febbraio 1997.
PADRE LUIGI LARACCA
Luigi Laracca nasce a Minturno da Giovanni Laracca e Francesca Zambarelli il 21 Giugno 1912 anche per lui la presenza dello zio Padre Luigi è motivo dello sbocciare della vocazione somasca. il 28 Settembre 1932 emette la professione semplice e nel 1938 a Como è ordinato Sacerdote ed inviato a dirigere l'orfanotrofio di Foligno. Nel 1939 è a Roma come Ministro di Disciplina a S. Alessio all'Aventino. Nel 1948 è nominato Vice parroco di S.Martino a Velletri. Ideatore della processione del Cristo Morto è stato un vero apostolo della campagna. Scomparso il 17 Aprile 1978.
GIOVANNI BATTISTA IACHINI
Iachini nasce nel 1860 in una casa situata tra Via Bonese, Via Bragaccio e Via Portella, figlio di un notaio si iscriverà anche lui alla facoltà di giurisprudenza e diverrà avvocato. Nei verbali della “Società letteraria dei Volsci” (cenacolo poetico che si estinse nel 1839 alla morte di Clemente Cardinali) compare un omonimo di Giovanni Battista, probabilmente il nonno che già allora praticava l’arte della poesia. Iachini inizia a pubblicare nel 1878 su “Il Censore”, risale invece al 1884 una raccolta di poesie a carattere ameno; nello stesso periodo compaiono altri suoi componimenti uno dei quali, intitolato “Affetti” è firmato con lo pseudonimo di Pellogna. La produzione di Iachini fu prevalentemente dialettale, sono giunti a noi solamente due componimenti in italiano, uno intitolato “La fama del P.A. Secchi” ode alla memoria di Padre Angelo Secchi, rettore del liceo che promosse la costruzione dell’osservatorio meteorologico municipale, e la seconda intitolata “Al cimitero” in memoria della madre. Sempre nel 1884 esce l’unica raccolta pubblicata per i tipi della Libreria Lizzini e subito si avvampa la miccia della polemica a cui accennavo poc’anzi che inizia sulle pagine de “Il nuovo Censore” per opera di un misterioso redattore che si firma “Volsco”. Al centro del dibattito il poemetto “La battaglia di Marino” che fece veramente infuriare il Volsco, il quale rimproverò a Iachini di mettere in ridicolo il fatto storico e la popolazione volsca, trascurano per di più la verità dei fatti. Inoltre al poeta venne rimproverato un uso poco sapiente del dialetto che in qualche punto viene contaminato col romanesco. Volsco chiude il suo pezzo in maniera piuttosto bonaria e, riconoscendo qualche pregio alla raccolta consiglia il poeta di studiare più attentamente il dialetto. Immediata la risposta di Iachini che, dopo aver ribadito: “io nacqui, crebbi e fui pasciuto a Velletri”, non senza ironia chiede a Volsco e ai “sapienti critici che anche in una piccola città stanno in buon numero” di indicargli “ciò che nel loro gusto finissimo accettano di buono nel nostro dialetto e quello che reputano spurio”. Vosco ribatte puntigliosamente alla risposta di Iachini criticando l’uso (secondo lui a sproposito) del registro ironico, ribadendo che non basta nascere in un luogo per conoscerne a fondo il dialetto e rimarcando i numerosi tratti di romanesco nella parlata di Iachini. Inoltre al nostro viene rimproverata un’eccessiva rassomiglianza all’opera del poeta romanesco Zanazzo. La polemica si chiude qui, ma dai dati risulta che le vendite della raccolta furono ottime tanto da esaurire la prima edizione; allora come oggi non c’è niente di meglio che una polemica sui giornali per pubblicizzare un’opera ed è curioso notare come certi meccanismi siano radicati nella tradizione più profondamente di quanto non ci si aspetti. La seconda edizione è pubblicata nel 1890 per conto di Cesare Bertini Libraio-Editore, 48 pagine a 50 cent (metà prezzo rispetto all’edizione precedente). Iachini corregge il testo tenendo presenti alcune delle precisazioni di Volsco (che evidentemente tutto questo torto non lo aveva). Il testo consta di diciotto componimenti e ha subito nel tempo numerose edizioni poco curate che lo hanno in parte anche parzialmente alterato, fino all’edizione Scorpius del 1992 condotta con criteri scientifici che ci ha ridato la versione originale del testo. La poesia più nota di Iachini è senza dubbio “la Battaglia di Marino” (che vi proponiamo in calce al presente articolo) che come abbiamo visto scatenò fin da subito aspre polemiche; per lungo tempo si è stati incerti su quale evento storico fosse rievocato,certi studi effettuati alcuni anni fa sembrano suggerire che in Iachini vi sia in realtà una certa confusione tra la battaglia delle campane del 1370 e la seconda battaglia di Marino del 1526, ciò non toglie che nel corso degli anni siano state scritte molte rappresentazioni teatrali ispirate alla poesia. Alle poesie di Iachini dobbiamo inoltre il nome di numerosi personaggi della cultura popolare come Ciammuotto, Cremente e Piccozza, ‘Ntogno e Peppone, Cencetto e Pellogna e, ultimo ma non per importanza il celebre Gurgumiello, stereotipo del vignarolo beone al quale nel 1983 si è ispirato il prof. Giancarlo Soprano per la creazione della celebre maschera del carnevale popolare Veliterno. La raccolta fu l’unica pubblicata da Iachini che scomparve prematuramente il 18 marzo 1898 a soli 38 anni. Il 23 marzo 1980 a 82 anni dalla scomparsa, il poeta venne ricordato nel corso della rievocazione della battaglia di Marino svoltasi presso il ristorante “Monte Artemisio” e di nuovo nel 1997 in occasione di un incontro sulla poesia in dialetto veliterno tenutosi nella Sala Tersicore del Comune. Ps: Quando si compiono ricerche storiche di qualunque tipo sono di importanza fondamentale le fonti, per questo lavoro, come per qualunque ricerca sulla storia e la cultura veliterne restano come base imprescindibile le opere di Roberto Zaccagnini, e in particolare “La letteratura velletrana” pubblicato per le ed. Scorpius.
CARDINALE JORGE MARIA MEJA
Fu ordinato sacerdote il 22 settembre 1945. Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-65) in qualità di perito; in quell'assise conobbe Henri de Lubac e il giovane vescovo ausiliare di Cracovia Karol Wojtyła. Dall'8 marzo 1986 al 5 marzo 1994 fu vice presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Nel frattempo il 12 aprile 1986 ricevette la consacrazione episcopale dal cardinale Roger Etchegaray. Dal 5 marzo 1994 fu segretario della Congregazione per i Vescovi, mentre dal 10 marzo dello stesso anno fu segretario del Sacro Collegio. Ricoprì entrambi i ruoli fino al 7 marzo 1998, quando fu nominato archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Il 24 novembre 2003 fu accolta la sua rinuncia per raggiunti limiti d'età. Papa Giovanni Paolo II lo innalzò alla dignità cardinalizia nel concistoro del 21 febbraio 2001. Il 21 febbraio 2011 optò per l'ordine dei cardinali presbiteri, mantenendo invariata la diaconia elevata pro hac vice a titolo presbiterale. Il 15 marzo 2013 fu colto da infarto a Roma nei giorni immediatamente successivi all'elezione al soglio pontificio del suo connazionale papa Francesco, che non mancò di fargli personalmente visita in ospedale. Malato di cancro allo stomaco, morì a Roma nella Casa di Cura Pio XI il 9 dicembre 2014 all'età di 91 anni per complicanze cardiache.[1] Le esequie sono state celebrate l'11 dicembre all'Altare della Cattedra della Basilica di San Pietrodal cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio Cardinalizio; al termine della celebrazione papa Francesco ha presieduto il rito dell'ultima commendatio e della valedictio. La salma è stata poi tumulata nella chiesa di San Girolamo della Carità.
MONS. ANDREA MARIA ERBA
Andrea Maria Erba nasce a Biassono in Provincia di Milano il 1 Gennaio del 193°.Nel 1942 entra nel Seminario dei Barnabiti. Nel 1948 a Monza emette i voti temporanei. Studia Teologia a Roma presso l’ Urbaniana e l’11 Ottobre 1952 emette la professione solenne. Nel 1956 viene ordinato Sacerdote. Nel 1961 inizia ad insegnare nelle Scuole Superiori. Dieci anni dopo inizia ad insegnare presso l’Università Urbaniana, collabora con l’Osservatore Romano scrivendo in terza pagina. Nel 1982 viene nominato Parroco dei Santi Carlo e Biagio ai Catinari di Roma. Nel 1988 viene eletto Vescovo di Velletri – Segni e consacrato il 6 Gennaio successivo nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II. Ha preso possesso della Diocesi il 22 Gennaio 1989.Mon.Erba è Vice presidente della Conferenza Episcopale Laziale nonché membro della Congregazione per le Cause dei Santi. Il Vescovo Mons. Andrea Maria Erba è stato il ponente nelle tre fasi del processo canonico per la beatificazione e canonizzazione del frate di S. Giovanni Rotondo. Le sue tre relazioni redatte per la Venerabilità – Beatificazione e Canonizzazione desunte dalla mole di documentazione raccolta dall’esame della vita del frate del con le stimmate sono la base su cui è stata presa la decisione finale in tutte le tre fasi del cammino che ha portato sugli altari Padre Pio. E’ scomparso a Velletri il 21 Maggio 2016 riposa nella Cattedrale di S. Clemente.
MONS. VINCENZO APICELLA
Don Vincenzo come ama essere chiamato è nato a Napoli il 22 Gennaio 1947, ordinato sacerdote a Roma il 25 Marzo 1972 è stato consacrato Vescovo dal cardinale Ruini il 14 Settembre 1996. Ausiliare di Roma settore Ovest ha avuto il titolo di Gerafi, passato a Velletri – Segni il 28 Gennaio 2006 ne ha preso possesso il 2 Aprile dello stesso con una bella celebrazione eucaristica nella cattedrale di S. Clemente.
PAPA BENDETTO XVI
Il santo padre Benedetto XVI è stato insignito del titolo di Priore Onorario, il 16 Maggio 1993 giorno della sua presa di possesso del titolo suburbicario di Velletri – Segni che ha mantenuto fino al giorno della sua elezione al Trono di Pietro. Il Cardinale Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, è nato a Marktl am Inn, diocesi di Passau (Germania), il 16 aprile del 1927 (Sabato Santo), e battezzato lo stesso giorno. Il padre, Commissario di polizia, proveniva da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera, di condizioni economiche piuttosto modeste. La madre era figlia di artigiani di Rimsting, sul lago Chiem, e prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca in vari hotels. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza in Traunstein, piccola località vicina alla frontiera con l’Austria, a 30 km. da Salisburgo. In questo contesto, che egli stesso ha definito “mozartiano”, ricevette la sua formazione cristiana, umana e culturale. Non fu facile il periodo della sua giovinezza. La fede e l’educazione della famiglia lo prepararono ad affrontare la dura esperienza di quei tempi, in cui il regime nazista manteneva un clima di forte ostilità contro la Chiesa cattolica. Il giovane Joseph vide come i nazisti colpivano il parroco prima della celebrazione della Santa Messa. Proprio in tale complessa situazione, egli ebbe a scoprire la bellezza e la verità della fede in Cristo; un ruolo fondamentale per questo svolse l’attitudine della sua famiglia, che sempre dette chiara testimonianza di bontà e di speranza, radicata nella consapevole appartenenza alla Chiesa. Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale fu arruolato nei servizi ausiliari antiaerei. Dal 1946 al 1951 studiò filosofia e teologia nella Scuola superiore di filosofia e di teologia di Frisinga e nell’università di Monaco di Baviera. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1951. Un anno dopo intraprese l’insegnamento nella Scuola superiore di Frisinga. Nel 1953 divenne dottore in teologia con la tesi “Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino”. Quattro anni dopo, sotto la direzione del noto professore di teologia fondamentale Gottlieb Söhngen, ottenne l’abilitazione all’insegnamento con una dissertazione su: “La teologia della storia di San Bonaventura”. Dopo aver insegnato teologia dogmatica e fondamentale nella Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga, proseguì la sua attività di docenza a Bonn, dal 1959 al 1963; a Münster, dal 1963 al 1966; e a Tubinga, dal 1966 al 1969. In quest’ultimo anno divenne cattedratico di dogmatica e storia del dogma all’Università di Ratisbona, dove ricoprì al tempo stesso l’incarico di vicepresidente dell’Università. Dal 1962 al 1965 dette un notevole contributo al Concilio Vaticano II come “esperto”; assistette come consultore teologico del Cardinale Joseph Frings, Arcivescovo di Colonia. Un’intensa attività scientifica lo condusse a svolgere importanti incarichi al servizio della Conferenza Episcopale Tedesca e nella Commissione Teologica Internazionale. Nel 1972, insieme ad Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac ed altri grandi teologi, dette inizio alla rivista di teologia “Communio”. Il 25 marzo del 1977 il Papa Paolo VI lo nominò Arcivescovo di Monaco e Frisinga e ricevette l’Ordinazione episcopale il 28 maggio. Fu il primo sacerdote diocesano, dopo 80 anni, ad assumere il governo pastorale della grande Arcidiocesi bavarese. Come motto episcopale scelse “collaboratore della verità”, ed egli stesso ne dette la spiegazione: “per un verso, mi sembrava che era questo il rapporto esistente tra il mio precedente compito di professore e la nuova missione. Anche se in modi diversi, quel che era e continuava a restare in gioco era seguire la verità, stare al suo servizio. E, d’altra parte, ho scelto questo motto perché nel mondo di oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità”. Paolo VI lo creò Cardinale, con il titolo presbiterale di “Santa Maria Consolatrice al Tiburtino”, nel Concistoro del 27 giugno del medesimo anno. Nel 1978, il Cardinale Ratzinger prese parte al Conclave, svoltosi dal 25 al 26 agosto, che elesse Giovanni Paolo I, il quale lo nominò suo Inviato Speciale al III Congresso mariologico internazionale celebratosi a Guayaquil, in Ecuador, dal 16 al 24 settembre. Nel mese di ottobre dello stesso anno prese parte al Conclave che elesse Giovanni Paolo II. Fu relatore nella V Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1980 sul tema: “Missione della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo”, e Presidente delegato della VI Assemblea Generale Ordinaria del 1983 su “La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa”. Giovanni Paolo II, il 25 novembre del 1981, lo nominò Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Il 15 febbraio del 1982 rinunciò al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga; il 5 aprile del 1993 venne elevato dal Pontefice all’Ordine dei Vescovi, e gli fu assegnata la sede suburbicaria di Velletri - Segni. E’ stato Presidente della Commissione per la preparazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che, dopo sei anni di lavoro (1986–1992), ha presentato al Santo Padre il nuovo Catechismo. Giovanni Paolo II, il 6 novembre del 1998, approvò la sua elezione a Vice Decano del Collegio cardinalizio da parte dei Cardinali dell’Ordine dei Vescovi, e, il 30 novembre del 2002, quella a Decano con la contestuale assegnazione della sede suburbicaria di Ostia. Fu Inviato Speciale del Papa alle celebrazioni per il XII centenario dell’erezione della Diocesi di Paderborn, in Germania, che ebbero luogo il 3 gennaio 1999. Dal 13 novembre del 2000 era Accademico onorario della Pontificia Accademia delle Scienze. Nella Curia Romana è stato membro del Consiglio della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati; delle Congregazioni per le Chiese Orientali, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli, per l’Educazione Cattolica, per il Clero e delle Cause dei Santi; dei Consigli Pontifici per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Cultura; del Tribunale Supremo della Segnatura Apostolica; e delle Commissioni Pontificie per l’America Latina, dell’“Ecclesia Dei”, per l’Interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico e per la Revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale. Tra le sue numerose pubblicazioni, occupa un posto particolare il libro: “Introduzione al Cristianesimo”, silloge di lezioni universitarie pubblicate nel 1968 sulla professione della fede apostolica; “Dogma e predicazione” (1973), antologia di saggi, omelie e riflessioni dedicate alla pastorale. Ebbe grande eco il discorso che tenne davanti all’Accademia bavarese sul tema “Perché sono ancora nella Chiesa” nel quale, con la solita sua chiarezza, affermò: “Solo nella Chiesa è possibile essere cristiano e non ai margini della Chiesa”. Continuò ad essere abbondante la serie delle sue pubblicazioni nel corso degli anni, costituendo un punto di riferimento per tante persone, specialmente per quanti volevano approfondire lo studio della teologia. Nel 1985 pubblicò il libro-intervista: “Rapporto sulla fede” e, nel 1996, “Il sale della terra”. Ugualmente, in occasione del suo 70° genetliaco, venne edito il libro: “Alla scuola della verità”, in cui vari autori illustrano diversi aspetti della sua personalità e della sua opera. Numerosi sono i dottorati “honoris causa” che egli ha ricevuto: dal College of St. Thomas in St. Paul (Minnesota, USA) nel 1984; dall’Università cattolica di Lima nel 1986; dall’Università cattolica di Eichstätt nel 1987; dall’Università cattolica di Lublino nel 1988; dall’Università di Navarra (Pamplona, Spagna) nel 1998; dalla Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA) nel 1999; dalla Facoltà di teologia dell’Università di Breslavia (Polonia) nel 2000
UN CONFRATELLO VENERABILE
Intorno alla metà degli anni trenta del XVI secolo venne ad abitare a Velletri da Capraica nella diocesi di Otranto, Vito Visi di professione ferraro. Il Visi si stabilì nella parrocchia di S. Martino al numero 1 di via della Trinitá. Compró una casa che confinava con i beni dell’universitá dei falegnami. Qui impiantó anche una bottega che poi passò al figlio Giovanni Lorenzo. Vito conobbe una ragazza di appena quindici anni, Eugenia Politi, figlia di Giuseppe e Caterina che sposò il 3 settembre 1646 per mano del parroco di S. Martino padre Andrea Sofia su licenza del vicario generale D. Carlo Antonelli. Il 27 settembre 1655 nacque il loro primo figlio, un maschio, che il curato di S. Martino padre Gregorio Grumello battezzò con i nomi di Giovanni Lorenzo. I due vivevano la loro vita coniugale come una comune coppia del XVI secolo, dedita al lavoro, timorata di Dio e con l´alto senso della famiglia che divenne ancor più importante con la nascita di Giovanni Lorenzo che per uno strano destino rimase orfano di madre quando aveva anno. Eugenia muore il 17 ottobre 1656 nella grande epidemia di peste che in quell’anno, oltre al crollo del campanile della cattedrale, sconvolse la nostra città. Vito il 18 aprile 1657 sposò in seconde nozze Caterina Centurione di anni 44. Il loro matrimonio non fu molto prolifero, il 14 febbraio 1658 nacque la loro primogenita che il curato di S. Martino battezzò con il nome di Anna, ma la gioia della nascita si trasformò subito nel dolore della morte perché Anna morì lo stesso giorno e venne sepolta nel tumulo degli infanti della parrocchia di S. Martino. Vito e Caterina desiderosi di avere un erede ci riprovano e il 21 febbraio 1659 venne portata al fonte battesimale un’altra bambina che il curato battezzò con il nome di Antonia ma anche lei morì lo stesso giorno venendo sepolta nel tumulo degli infanti della chiesa di S. Martino. In Vito e Caterina il desiderio di avere un figlio diventò sempre più forte e così il 16 agosto 1660 venne portata al fonte battesimale un’altra femmina che il curato battezzò con i nomi di Eufemia Antonia. Questa volta la felicità arrivò in premio per il tanto dolore. Eufemia crebbe bene e conobbe il giovane Francesco Antonio Montagna della parrocchia di S. Martino che sposò il 2 febbraio 1687 a S. Martino per mano del parroco P. Francesco Malsanti su licenza del vicario generale don Francesco De Masciarelli. Dalla loro unione nacquero cinque pargoletti: Cecilia che mai contrasse matrimonio, Angela Antonia battezzata il 3 agosto 1680, Nicola Mattia battezzato il 24 settembre 1682, Giulia Annunziata battezzata il 24 marzo 1683, Carlo Gregorio battezzato il 18 novembre 1699 che morì a soli quattro anni il 26 ottobre 1703 venendo sepolto nel tumulo degli infanti a Santa Maria in Trivio. I loro genitori tornarono al padre con quarant’anni di distanza: il primo fu Francesco Antonio che morì il 18 ottobre 1703 venendo sepolto nel tumulo della confraternita della Pietá in S. Maria in Trivio dove il 2 gennaio 1743 lo raggiunse Eufemia. Restò in vita solo Giovanni Lorenzo che come abbiamo detto nacque il 27 settembre 1655 e morì il 10 gennaio 1733 venendo sepolto nel tumulo della confraternita della Carità in S. Martino. Egli sposò il 15 febbraio 1688 Giulia Rosina Pietrosanti dalla quale ha il 18 dicembre 1688 Francesco Saverio che il curato di S. Martino battezzò in pericolo di vita infatti morì lo stesso giorno venendo sepolto nel tumulo degli infanti a S. Martino. Il 30 maggio 1692 anche Giulia Rosina rese l’anima a Dio. Passarono otto anni e Giovanni Lorenzo sposò in seconde nozze Caterina Salvatori Bauco che gli diede il 3 marzo 1704 un bellissimo maschietto che il curato di S. Martino P. Francesco Spelta battezzò il giorno seguente con i nomi di Filippo Maria Andrea. Caterina morì dopo più di un anno il 26 settembre 1705 e venne sepolta nel tumulo della confraternita della Caritá in S. Martino. Filippo era un bambino che portava in se uno straordinario disegno di Dio destinato per volere dell’Altissimo a diventare quella grande figura dell’Ordine Minore di S. Francesco.
Il figlio del manescalco
Questa che inizia è la vita di un povero frate di S. Francesco che per sua scelta trascorse tutta la sua esistenza nei così definiti conventi di ritiro dove la regola del poverello era osservata alla lettera. Capisaldi della vita religiosa in questi luoghi erano la preghiera, la penitenza, il silenzio, la povertà, lo studio e il lavoro. Filippo Maria Andrea Visi figlio del maniscalco Giovanni Lorenzo e di Caterina Bauco nacque a Velletri in via della Trinità n 1 alle 11 del mattino del 3 marzo 1704. Il giorno seguente fu portato al fonte battesimale della chiesa di San Martino. Suoi “compari” furono Antonio Galli e Anna Fabri, lo battezzò padre Francesco Spleta. Il piccolo rimase ben presto orfano di madre perché Caterina morì subito dopo averlo dato alla luce. La sua educazione fu quindi interamente sulle spalle del padre Giovanni Lorenzo che faceva il maniscalco nella bottega sotto casa dove commerciava d’arte bianca. Filippo crebbe tra le stradine che circondano il palazzo Borgia fino alla chiesa di S. Martino. Questi luoghi lo hannovisto bambino e qui il Signore ha manifestò in lui i segni della sua grandezza. Comparve in lui il desiderio di condurre una vita di contemplazione e di consacrazione a Dio. Fuggiva le compagnie dei suoi coetanei, preferiva la solitudine al gioco, soffriva nel sentire i ragazzini della sua età bestemmiare e dire parolacce.
Il collegio dei Dottrinari
Giovanni Lorenzo anche se non disponeva di grandi ricchezze volle assicurare al figlio almeno una basilare istruzione, quindi lo iscrisse al collegio dei padri della dottrina cristiana ai Santi Pietro e Bartolomeo. I religiosi venuti a Velletri nel 1581 insegnavano la dottrina ai “figli dei poveri” e per far loro meglio capire la verità della fede davano lezioni di lingue, storia e geografia nonché di matematica e insegnavano a chi non lo sapesse fare anche a leggere. Filippo frequentò con profitto la scuola, gli piaceva studiare tanto che molto presto divenne maestro elementare e aprì nella casa di via della Trinità una scuola dove formava l’animo dei piccoli al sapere e alla bontà ma soprattutto al timore di Dio. Ricevette quando aveva undici anni il sacramento della Confermazione e poi gli ordini minori ovvero la Sacra Tonsura
La scuola di via della Trinità
Il processo di beatificazione è pieno di deposizioni sulla scuola che Filippo aveva aperto in casa a via della Trinità dove insegnava ai suoi fanciulli con cuore di padre e di apostolo. Voleva che essi ascoltassero ogni giorno la santa messa e che nell’entrare in classe salutassero col dire “sia lodato Gesù Cristo”. Ai suoi ragazzi oltre le lettere e la grammatica insegnava cos’è la modestia e l’umiltà. Non esitava però a castigare ogni loro difetto. Era così modesto e verecondo che fuggiva ogni volta che udiva parole oscene. Dopo la scuola serale amava fermarsi nella bottega di orefice di Carlo Sellini poco distante da casa sua, bastava anche una bestemmia per farlo andar via. Quelli della bottega una volta capito cosa lo faceva andare via, quando volevano liberarsi di lui pronunciavano qualche frase oscena tanto che si allontanasse immediatamente. Di questo però si pentì lo stesso Carlo Sellini (come egli ha confessato nel processo di beatificazione) subito dopo la morte di Filippo affermando che ci provava gusto a farlo scappare come un lepre senza sapere che giocava con un santo.
La chiesa di S. Martino
La parrocchia somasca di S. Martino Vescovo rappresentò un cardine fondamentale nella vita del Ven. Filippo. Qui il nostro trascorreva gran parte delle sue giornate festive. La mattina sedeva all’organo per la messa cantata e recitava l’officio nell’Oratorio della Carità, la sera recitava il rosario in chiesa, cantava vespro e insegnava il catechismo ai bambini. Aveva una profonda venerazione del padre e nonostante avesse, come abbiamo detto, gli ordini minori non disdegnava di battere la mazza nella bottega paterna. A chi gli chiedesse il perché si sottoponesse a tale fatica rispondeva “è meglio ubbidire che santificare”. Lo faceva con letizia negli occhi col solo intento di soddisfare il padre che essendo povero non poteva permettersi un garzone. Michelangelo Ruggeri ha testimoniato che non arrossiva a fatto nel farsi vedere compiere tale atto, per lui la fatica era un modo per glorificare Dio.
Precettore di Maria Laudonia Toruzzi
La sua fama di maestro e la morigeratezza dei suoi ragazzi indusse il nobile Giuseppe Felice Toruzzi ad affidargli il delicato incarico di precettore di sua figlia Maria Laudonia. La piccola aveva otto anno e al nostro Filippo venne chiesto di impartirgli lezioni di letteratura e di scrittura. Furono tali le insistenze del nobile Toruzzi che Filippo non poté esimersi da accettare l’incarico. Il delicato compito fu svolto con somma compostezza smuovendo nella piccola la vocazione religiosa. Infatti appena ebbe l’età Maria Laudonia entrò nel monastero di S. Ambrogio in Roma dove divenne suor Costanza Vittoria.
La confraternita della Carità, Orazione e Morte
Filippo era molto devoto alla Vergine SS.ma, tanto che ogni sera cantava le litanie lauretane inginocchiato davanti all’immagine della Madonna dei Sette Dolori posta sopra la bottega di Michelangelo Ruggeri. Questa devozione lo portò ad aggregarsi alla confraternita della Carità che all’epoca ancora officiava nel primo altare a destra della chiesa di S. Martino. Filippo era il più esemplare tra i confratelli, era il primo ad arrivare in oratorio e l’ultimo ad andarsene. Era attento che tutte le regole del sodalizio venissero rispettate e che i confratelli recitassero tutti l’officio per maggior gloria di Dio e della Vergine SS.ma della Carità
Viene eletto camerlengo
Tommaso di Silvio nei processi di beatificazione ha lasciato una bellissima testimonianza di come Filippo venne eletto camerlengo ovvero amministratore dei beni della confraternita. Di Silvio che era anche lui un aggregato al sodalizio conosciuto ai nostri giorni come confraternita della Carità, Orazione e Morte, racconta che l‘oratorio di S. Martino rimase chiuso per ordine del cardinal vescovo a causa di alcune discordie tra i confratri e il camerlengo in carica. Il nostro, che soffriva per questa situazione, si adoperò con tutte le sue forze per riunire i confratelli e cercare di appianare le discordie. Una volta disse: “se noi lasciamo la Madonna SS.ma, la Madonna SS.ma non si curerà che la lasciamo ma se la Madonna lascia noi, guai a noi”. Capito che il solo motore delle discordie era il camerlengo tutti i confratelli furono unanimi nel chiedere agli imbussolatori Giuseppe Toruzzi e Carlo Gregna di proporre al Visi il delicato incarico. Filippo rispose che avrebbe accettato l’officio ma solo dopo che il padre avesse acconsentito. Giovanni Lorenzo non ebbe alcuna difficoltà a farlo e così Filippo Maria Andrea Visi venne eletto camerlengo della confraternita della Carità, Orazione e Morte. Tenne il suo officio con somma dignità e trasparenza tanto che nessuno poté muovergli accuse. Infondeva nei confratelli modestia e umiltà e li incitava alla frequenza dell’oratorio nonché all’osservanza delle pratiche devozionali. Quando li sentiva litigare per questioni di precedenza nelle processioni diceva: “Fratelli miei viva per amor di Dio non angustiatevi: l’abito non fa il monaco, non vi curate di precedenze. Tutti siamo uguali sotto questo sacco. Questo è l’abito della Madonna Santissima a cui serviamo”. Sapeva dire le cose con dolcezza e pacatezza che anche i più “bellicosi” prendevano posto nelle fila. Una volta per rimettere pace fra due confratelli con il sacco indosso e il cordone intorno al collo si inginocchiò dicendo che non si sarebbe alzato fino a che non avrebbero fatto la pace, i due commossi si abbracciarono.
La morte di Giovanni Lorenzo Visi
Filippo, fin dalla sua adolescenza, manifestò sempre al padre il desiderio di entrare nell’ordine dei Frati Minori di S. Francesco egli infatti si intratteneva molto spesso con i buoni padri di S. Lorenzo. Ebbe a confidare a mons. Cesare Gregna canonico di S. Clemente che ogni volta entrava nella bella chiesa posta sul punto più alto della città si sentiva infiammato di Spirito Santo. Lo stesso mons. Gregna deponendo al processo di beatificazione ha riferito le strane circostanze in cui morì Giovanni Lorenzo Visi proprio mentre Filippo si avvicinava all’età massima per entrare in convento. Filippo aveva sempre rimandato la sua decisione per non abbandonare il padre vecchio e solo. Una sera nella cucina della casa di via della Trinità, Filippo disse al padre che temeva di non poter entrare in convento perché stava raggiungendo i limiti d‘età. L’anziano manescalco anche un poco irritato gli rispose: “Ti farai quando sarò morto”. Nella stessa sera un accidente colpì Giovanni Lorenzo e qualche giorno dopo venne portato al sepolcro. Filippo colpito da questo evento corse a confessare tutto a padre Tommaso da Velletri, suo padre spirituale, che dopo averlo rassicurato gli fece capire che quella era volontà di Dio che si facesse frate. Prima di entrare in convento mise in vendita la casa di via della Trinità destinandone il ricavato alla biblioteca del convento di S. Lorenzo. L’edificio venne comprato da Carlo Adami secondo quando deposto nei processi da D. Vincenzo Fagliocchi beneficiario della cattedrale.
Novizio a S. Francesco di Cori
Finalmente libero da ogni vincolo secolare Filippo bussò alla porta del convento di S. Francesco di Cori chiedendo di vestire l’abito del Poverello d’Assisi il 3 giugno 1733. Padre Clemente Maria da Limano che fu suo maestro dei novizi nei processi di beatificazione depose su come Filippo si distinse nel noviziato. Egli era il più esemplare tra tutti, non fu mai necessario riprenderlo per qualcosa anzi la sua condotta veniva posta a modello per gli altri. Una volta mentre i novizi erano riuniti nella “comune” del convento gli venne chiesto quante volte era stato “penitenziato”, egli rispose che non era mai accaduto. Un vero esempio di umiltà e di sottomissione al valore dei superiori. Secondo le rigide regole del tempo per far professare un novizio bisognava raccogliere per tre volte i voti favorevoli del capitolo della casa. Per Filippo Visi ci fu l’unanimità in tutte tre le volte. Un caso rarissimo, i padri di S. Francesco di Cori avevano capito che erano davanti ad un vero figlio del Serafico di Assisi, ad una vocazione prediletta dal Signore, ammiravano in lui la sua probità. L’attenzione con cui curava il servizio di Dio ma soprattutto la sua straordinaria capacità di mortificare se stesso, disarmava la gioia con cui faceva le cose anche quelle più umili. Spesso si confessava anche per le cose più strane che non giustificavano neanche l’assoluzione. “Fra Clemente nella deposizione riferì che quando gli comunicò che poteva professare la regola egli si sentì tentato di non farlo più perché in casa sua sarebbe stato felice in anima e corpo, la religione è fatta di tanti voti e di tanti pesi”. Il maestro lo invitò ad andare in cella e a pregare. La mattina seguente aveva riacquistato la serenità d’animo ed era entusiasta anzi non vedeva l’ora di professare la regola serafica. A Fr. Luigi da Roma confessava molto spesso il dolore e l’imbarazzo che provava nel sentire offendere il Signore come quando a Cisterna vide due malviventi che strapazzavano un sacerdote. Per maggiore gloria di Dio volle studiare teologia morale, cosa che fece con molto profitto.
Il ritiro di S. Francesco a Bellegra
Fra Filippo Visi venne mandato a compiere l’anno di recollazione nel convento di S. Francesco di Civitella, l’odierna Bellegra. Si tratta di un luogo dove la spiritualità di Francesco d’Assisi si tocca con mano. Qui la regola viene osservata scrupolosamente “sine glossa, sine glossa”. I religiosi non si sottomettevano solo alla regola, ma applicavano alla lettera le costituzioni dell’ordine com’era d’obbligo per tutti i religiosi della provincia dimoranti negli altri conventi, ma anche quelle dei dimoranti negli altri conventi e quelle del ritiro. A San Francesco di Civitella la vita era basata su questi principi preghiera, penitenza, silenzio, povertà, studio e lavoro. Il convento di Civitella, definito di decollazione, apriva automaticamente le sue porte agli aspiranti religiosi francescani. Questo è confermato dalla prima struttura famigliare che si componeva di due chierici: Silvestro da Caprarola e Arcangelo da Paliano. Per i novizi c’era ancora da attendere. Il capitolo generale dell’ordine celebrato presso l’Aracoeli nel 1676 decise che nelle provincie dell’ordine Minore fossero istituite le case o conventi di recollazione. Qui i frati potevano ritirarsi per meglio curare la vita religiosa e progredire osservando fedelmente la regola sull’esempio di San Francesco. Si viveva un momento particolarmente difficile, c’era un lassismo generale procurato da numerose uscite per entrare in movimenti riformatori insorgenti qua e là per seguire più fedelmente l’ideale francescano. Quel capitolo volle dare a questa situazione una forte risposta con l’istituzione delle case di recollazione. Tale decisione, come del resto tutti gli atti di quella seduta, dovevano avere l’approvazione della santa sede che arrivò solo il 22 novembre 1679. Solo nel 1684 però San Francesco di Civitella acquistò la qualifica di “nova recollectio”. Il primo guardiano fu Giustino Capretti da Cori al quale solo due anni dopo successe Tommaso Placidi nobile figlio dell’alma terra lepina. I religiosi dimoranti a S. Francesco di Civitella iniziarono una vita più rigida tanto che la fama della loro santità valico i confini della provincia romana e il convento venne chiamato “sacro ritiro”. Ritiro non era un nome nuovo, in quel periodo nella provincia romana dei riformati era stata introdotta l’esperienza dei ritiri, solo che i ritiri del Beato Bonaventura da Barcellona rivendicavano una certa autonomia dal ministro provinciale. Per i religiosi di San Francesco di Bellegra non fu così, essi riconobbero sempre l’autorità del provinciale. Anche se ad erigere fondamentalmente il ritiro fu Vincenzo da Bassiano la sua nascita invece si deve a San Tommaso da Cori. L’illustre figlio di San Francesco fu presente già nella prima famiglia e in seguito venne più volte chiamato a reggere Bellegra come guardiano. Le sue guardianie furono propizie affinché la struttura si consolidasse e muovesse bene i primi passi. Tommaso a questo scopo dettò le “ordinazioni per i ritiri di Civitella e di Palombara” che poi con qualche ritocco furono estese a tutti i conventi dell’ordine dal capitolo generale di Murcia (Spagna). Tommaso aveva stabilito le regole, ma lo scopo principale era l’osservanza della regola di Francesco con fedeltà scrupolosa “sine glossa, sine glossa”. Una vita che portava verso la perfezione dello Spirito, ma anche del corpo. S. Francesco di Bellegra grazie a questa sua particolare struttura fu una vera fucina di santi, la piccola chiesa che ne custodisce le spoglie è un vero tesoro per l’ordine di San Francesco. La preghiera era come l’aria che il religioso respirava e gli permetteva di vivere spiritualmente. Si cercava un contatto con Dio attraverso la preghiera personale (in cella o altrove) e attraverso quella comunitaria in coro nei momenti del giorno e della notte. Pregare doveva essere la massima aspirazione del “ritirato”, la lode a Dio doveva fiorire sulle labbra sia che stesse lavando i piatti in cucina o i piedi ai suoi confratelli o che stesse scaldandosi al fuoco comune. La penitenza veniva praticata coi frequenti e prolungati digiuni e astinenze. Tre erano i momenti di digiuno nel corso dell’anno: il primo dalla festa di Ognisanti fino a Natale, il secondo era la benedetta cioè dall’Epifania per quaranta giorni consecutivi. Al termine il superiore impartiva una speciale benedizione ai religiosi che l’avevano praticata. Il terzo era quello che si usa in tutta la chiesa nei quaranta giorni prima di Pasqua. I religiosi dei ritiri usavano praticare anche altre forme di mortificazione come mangiare in ginocchio, lavare e baciare i piedi ai confratelli e la disciplina da farsi tre volte alla settimana. Il silenzio si divideva in rigoroso e meno rigoroso, esso doveva regnare sovrano nel ritiro, la sua infrazione era una colpa di cui accusarsi nel capitolo delle colpe. Raramente veniva concesso di parlare e quando lo si poteva fare bisognava farlo a voce bassa in modo da non turbare il religioso raccoglimento, il vero clima che si respirava a San Francesco di Bellegra. La povertà, la più grande eredità rispettata con il distacco spirituale delle cose, ma anche dalla materiale, privazione di esse. Rientrava nella pratica della povertà il rifiuto del denaro. Lo studio era importantissimo per la formazione del religioso, esso prendeva parte alle “lezioni spirituali” che si tenevano tre giorni alla settimana sulla regola, sulla mistica e sulla morale. Mentre ai giovani veniva insegnata anche la grammatica e il catechismo. Il lavoro veniva effettuato da tutti, dai sacerdoti particolarmente nell’impegno dell’apostolato e della preghiera, nel servizio pastorale nella chiesa del ritiro e delle parrocchie vicine. Importante anzi fondamentale fu quello svolto dai fratelli laici nel servizio della questua, nella pulizia del convento, nella cura dell’orto e della cantina.
La recollezione accoglie Fra Filippo Visi
Nel 1734 dopo aver compiuto l’anno di noviziato a Cori, Fra Filippo Visi da Velletri venne mandato a fare il secondo anno, quello della recollazione, nel convento di Civitella, oggi Bellegra. Anche qui il nostro Fra Filippo diede dimostrazione della sua umiltà e della sua straordinaria modestia. Osservava fedelmente tutti i comandamenti di Dio e le costituzioni del ritiro. Tantissime volte lamentava la sua sofferenza nel vedere offendere il Signore. Era un ottimo oratore ma le sue condizioni di salute (la tisi iniziava a minare il suo corpo) gli impedivano molto spesso di dire messa in pubblico e quindi svolgeva il suo ministero nel confessionale. Molto spesso venne incaricato di predicare gli esercizi spirituali nei ritiri. Chi riceveva da lui gli esercizi si è sempre dimostrato straordinariamente affascinato dalla sua umiltà e modestia. Michelangelo Ruggeri ha deposto nei processi che quando andava a Civitella a visitarlo Fra Filippo si dimostrò sempre attento al bene delle anime. Infatti più volte disse: “Il Signore Dio ci fa tanto bene e noi ingrati sempre l’offendiamo, però conviene pentirci sempre di tutto cuore”. Sempre Michelangelo Ruggeri nei processi riferisce che il venerabile era di una carità straordinaria. Una volta mentre si recava alla fiera di Farfa passò a visitarlo a Palombara ed egli lo obbligò a riposare dandogli alloggio. Era zelantissimo nell’osservare le costumanze del ritiro e si opponeva ad ogni abuso. Come quando era guardiano a Palombara e riuscì a togliere l’abuso della celebrazione della festa della Madonna della Neve nella chiesa del convento da parte del clero secolare. Questo perché dava fastidio ai suoi frati la parte civile della manifestazione che comprendeva pranzi e banchetti all’interno del ritiro. Egli con la sua morigeratezza riuscì a raggiungere un accordo.
Guardiano di Palombara e Valentano
Padre Filippo Visi venne chiamato superiore nei ritiri di Palombara e Valentano perché questi si consolidassero nel rispetto della tradizione e delle regole stabilite da quel grande che fu San Tommaso Placidi da Cori. I processi di beatificazione, conservati nella Biblioteca Comunale di Velletri (fondo antico), ci tramandano numerose testimonianze di questo capitolo della vita del semplice frate di San Francesco. Fra Antonio da Pisciano ci racconta che un giorno il padre Visi comandò un religioso che portasse “certe sandale” nella camera delle cose comuni. Quel religioso non uddibì. Allora il venerabile chiese di farlo al detto Fra Antonio e in refettorio mortificò non poco il religioso che non aveva rispettato il voto dell’obbedienza dicendo: “Padri e fratelli miei preghiamo Iddio per questo nostro fratello che ha un demonio che lo tenta”.
Le penitenze e le privazioni
Padre Filippo (di questo ne sono certa testimonianza i processi di beatificazione) faceva asprissime penitenze e mortificava se stesso con grandi privazioni. D. Vincenzo Spieghi ha deposto che nonostante i medici gli avessero ordinato di mangiare carne anche il venerdì egli se ne privava nel rispetto delle leggi della chiesa. Quando il guardiano gli faceva preparare qualche cibo in quei giorni egli ne prendeva per non violare il voto d’obbedienza. Egli si umiliava in refettorio prostrandosi e baciando i piedi a tutti i religiosi. Da superiore invece mostrava una straordinaria dolcezza nel correggere i difetti che aveva sempre la sua efficacia. Si infervorava quando parlava nella domenica di Passione e nel giorno di Natale. Sentiva in modo particolare ogni festa della Beata Vergine Maria. Chi lo ascoltava ne rimaneva colpito e ogni volta che usciva a predicare consegnava al suo ritorno nelle mani del sindaco apostolico cospicue elemosine. Egli rifiutava il superfluo nel rispetto della santa umiltà e della santa povertà. Mostrava una straordinaria rassegnazione in Dio accettando con letizia le sue infermità per le quali aveva un solo dispiacere, quello di non poter fare tutto ciò che nei ritiri era d’uso e di dare fastidio ai confratelli che lo assistevano. Quando fu guardiano ebbe sempre come prima intenzione la carità ai poveri che “bussavano” alla porta del convento. Fra Antonio da Piasciano ha deposto che il venerabile faceva la Via Crucis con una corona sulla testa e una Croce sulle spalle. Il venerabile Visi aveva un dono particolare, quello della parola, egli sapeva infondere tranquillità e coraggio a chi gli poneva per un consiglio il peso delle sue angustie e preoccupazioni. Quando era in confessionale rivolgeva lo sguardo a Dio come fosse in preda ad una visione. La santa messa era per il padre Visi un momento particolare della sua giornata.
La santa messa
Per padre Filippo la messa era qualcosa di sublime, egli celebrava con straordinaria devozione rimanendo quasi estasiato davanti al mirabile sacramento dell’Eucarestia. Donna Maddalena Micarelli ha deposto che quando egli si trovava in casa sua ebbe modo di vedere con quanto raccoglimento recitava il breviario. Rimase colpita da come rivolgeva gli occhi al cielo mentre con la medaglia di San Diego benediva l’acqua per gli infermi. Infatti egli ogni otto giorni si recava a casa della nobildonna per visitarne la madre inferma. Nonostante che la strada per arrivare a palazzo Micarelli fosse lunga ed angusta e che il cammino non faceva certo bene alla sua salute egli non disdegnava di farlo per confessare l’inferma e comunicarla. Ogni volta che qualcuno poneva in luce i suoi meriti egli rispondeva: “Ah, poveretto me, che do sempre ammirazione”. Quasi tutti i testimoni ascoltati dal tribunale ecclesiastico misero in luce la sua straordinaria umiltà e il suo saper osservare la regola serafica nel pieno rispetto delle clausole dettate da S. Francesco. Soffriva nello stare lontano dal ritiro e ne parlava con tutti. Parlava con il cuore in mano del modo in cui si viveva e del suo desiderio di terminare lì la sua vita. Forse l’unica cosa che non accettò mai fu l’imposizione (per ubbidienza) che i superiori gli fecero di lasciare Bellegra per S. Angelo Romano a causa delle sue precarie condizioni di salute.
Le virtù La fede
Il venerabile Visi esercitò in modo eroico questa virtù come testimoniano i processi di beatificazione. Qui Fra Leonardo da Palombara depose che il Visi sia a Bellegra che a Valentano condusse una vita santa e moralmente ineccepibile. E’ padre Luigi da Roma a fornirci più dettagliatamente notizie, egli testimonia che mai udì dire a padre Visi parole contro la fede, non accettava che si mettessero in dubbio punti dogmatici legati alla tradizione. Una volta mentre era a S. Angelo Romano nell’udire una persona mettere in discussione una pia credenza andò via dicendo che non voleva più sentire certi argomenti. Una volta sempre a S. Angelo non riuscendo a far capire ad un fedele una questione di fede si consigliò se non era il caso di denunciare il fatto al S. Uffizio. Non soddisfatto del suggerimento di padre Luigi da Roma andò a piedi a Palombara per consultare padre Giovanni Bianchi, un illustre teologo del proprio ordine che li era per prendere “aria buona”. Devotissimo del SS.mo Sacramento, quando il suo ufficio lo permetteva trascorreva molto tempo in orazione davanti all’Eucarestia che visitava anche subito dopo pranzo e dopo cena. Osservò alla lettera le rubriche e quando fu superiore volle che i suoi religiosi facessero lo stesso, se qualcuno non era istruito in tal senso non trovava pace finché non gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. A mons. Giovanni Cesare Gregna confidò che prima di professare la regola venne indotto in tentazione contro la fede. Una crisi di spirito che lo dilaniò per circa due anni. Lo disse al prelato una volta a S. Martino con queste parole: “Io invidio la vostra divozione, ed il non essere voi disturbato dalle tentazioni intorno alla fede come son io”. La celebrazione della santa messa ci riferisce Fra Leo da Palombara lo impegnava per molto tempo, anteponeva ad essa una lunga preparazione e dopo l’ “ite missa est” si fermava per lungo tempo a fare ringraziamento. Diceva che un sacerdote deve almeno stare un quarto d’ora a rendere lode al Signore per il dono dell’Eucarestia. Dava un grande esempio ai suoi confratelli e li correggeva dicendo tal volta: “Ah, poveri noi, come anderà il tribunale di Dio”. Nel periodo di Natale trascorreva ore davanti al presepio in fervente preghiera alternata con lodi al bambino. Era inflessibile sulla conservazione della tradizione, quando alcuni chierici moderni ponevano in discussione fatti come la venuta di Pietro a Roma o il trasporto della santa casa, ne soffriva. Se vedeva qualche villano in chiesa col capo coperto o che creava disturbo non riposava se prima questi non si erano calmati. La sua devozione alla Passione di Gesù lo portava ogni giorno a compiere il pio esercizio della Via Crucis, mai lasciava quest’abitudine se non per cause dovute al suo officio. Lo faceva nella parte interna del convento a piedi nudi con una Croce sulle spalle e in testa una corona di spine. D. Vincenzo Spighi ha deposto durante il processo di beatificazione che passando nel coro del ritiro di Bellegra lo vide con le braccia aperte e gli occhi fissi davanti all’immagine dell’Immacolata, non rispose neanche alla domanda che il detto religioso gli pose. Rimase per qualche minuto in quella posizione. Dopo un poco parlava normalmente come niente gli fosse successo. Una visione? Non sta certo a noi stabilirlo.
La speranza
La speranza ha un ruolo predominante nella vita del padre Filippo, le opere di carità sono una costante nella sua breve vita religiosa: quand’era superiore a Palombara non volle che il sindaco del convento accettasse “limosine” dai benefattori, rifiutò perfino dodici rubbie di grano lasciate ai suoi padri da Antonio Petrucci per volontà testamentaria. Dopo essere entrato nell’ordine di Francesco tornò qualche volta a Velletri prendendo alloggio nel convento di San Lorenzo. Non voleva niente dai suoi parenti rifiutò, come vedremo, per fino delle uova che Cecilia Montagna, sua cugina, voleva dargli. Non disdegnava le fatiche, nonostante fosse malato e di corporatura gracilina, di porsi sulle spalle grosse fascine di legna e di fare il bucato per la comunità, lavare e spazzare il convento, lavare i piedi agli ospiti, rifare la cucina. Non gli pesava, lo faceva con cristiana rassegnazione.
La carità
La virtù della carità fu alla base di tutta la vita di padre Filippo Visi da Velletri, tutto quello che fece fu fatto per il bene delle anime e a maggior gloria di Dio. Stava sempre attento a non commettere alcuna colpa, era assiduo alla frequenza del coro, mancava solo quando era in pessimo stato di salute. Anche negli ultimi anni della sua vita nonostante sputasse sangue, non rinunciava al coro e quando il suo stato di salute gli impedì di salmodiare con i confratelli andò ugualmente e restando seduto li recitava come poteva. Una volta riprese Fr. Luigi da Roma perché in preda al sonno sbadigliava in coro e anche quando non era superiore voleva che il Signore venisse servito esattamente. Padre Antonio da Lucimasco ha deposto che il venerabile Filippo faceva orazione mentale ogni momento giornata. Oltre all’ufficio del giorno recitava quello della Beata Vergine con una terza parte del Rosario, ogni venerdì faceva la Via Crucis e ogni notte recitava l’officio dei morti per le anime sante del purgatorio: usciva a portare esempio ai suoi penitenti e ai sacerdoti che da lui prendevano gli esercizi spirituali, le figure e l’opera dei Santi Tommaso da Cori e Teofilo da Corte. Padre Filippo visitava frequentemente gli infermi senza guardare alla sua salute, ma si preoccupava di quella degli altri. Fr. Luigi da Roma ha deposto che avendo saputo che il padre Filippo era a Civitella carico di fatiche lo esortò a scemarle per paura che ammalandosi non potesse più perseverare nei conventi di ritiro. Padre Giuseppe da Montecompatri ha deposto che padre Filippo mangiava poco. Per ordine del medico doveva mangiare carne anche nelle vigilie, questo gli dava timore e imbarazzo e diceva agli altri: “Beati voi che la potete osservare”. Egli infatti molto spesso non potendo fare vita comune preferiva non scendere in refettorio. Per non dare incomodo ai superiori e ai confratelli spesso scendeva in cucina e si preparava da solo i suoi miseri pasti. Una volta venne rimproverato dal guardiano perché andava in cucina a prendersi il cibo senza aspettare che gli venisse mandato. Ne soffrì molto.
L’incontro con la cugina a S. Lorenzo di Velletri
La bella chiesa di S. Lorenzo tenuta dall’ordine dei Frati Minori Osservanti di San Francesco fino al 1988 fu la cornice sublime e mistica per un incontro che Filippo ebbe con sua cugina Cecilia Montagna. E’ D. Basilio Suzzi confessore del padre Visi a testimoniarlo nei processi. Il venerabile su licenza dei superiori era nel convento di S. Lorenzo per respirare “aria buona“ e qui andò la cugina a visitarlo per raccomandargli una nobildonna. Padre Visi rispose che volentieri avrebbe pregato per lei ma ogni uno doveva portare la sua croce. Nella stessa occasione D. Basilio gli riferì che sua cugina Cecilia voleva vederlo e che era in chiesa ad aspettarlo. Padre Filippo all’inizio fu restio ad incontrarla ma poi scese in chiesa. D. Basilio si mise dietro il banco del magistrato ad ascoltare cosa si dicevano. L’incontro avvenne nella cappella di S. Rosa. Cecilia una volta visto l’illustre cugino si lamentò di essere sola. Padre Filippo rispose: “Come sei sola ? E’ teco Gesù Cristo e la Madonna ma se brami altra compagnia, poi entrare nel Conservatorio della Madonna SS.ma della Neve di questa città”. La donna gli disse che aveva portato con se quattro uova ma il venerabile rispose: “Io non voglio ova, ma unicamente quello che da la tavola del padre S. Francesco”. La cugina pur di averlo qualche ora tutto per lei lo invitò a pranzo dicendo che aveva pronta una gallina. Padre Filippo rispose: “Io non mangio fuori del Convento, mi contento della tavola di S. Francesco, della gallina fatene quel che volete”. Allora la donna lo pregò di orare per lei e gli rispose: “Questo lo farò volentieri ma aiutatemi ancor voi e non vi fidate totalmente delle mie orazioni”. Detto questo si abbassò il cappuccio e tornò in convento lasciando la cugina in lacrime. D. Basilio rimase edificato nel vedere tanto distacco dai propri parenti, segno che ormai egli apparteneva solo a Dio e a San Francesco. Anche Cecilia Montagna rese testimonianza nel processo dell’incontro confermando quanto già deposto da don Basilio. Fr. Ignazio Maria da Carciano ha deposto per testimoniare con quanta gioia tornava nei conventi di ritiro ogni volta che i superiore gli davano licenza di farlo. Nonostante la tisi che ormai lo stava uccidendo, egli si batteva regolarmente tre volte la settimana. Tanta era la sua devozione alla Passione di Nostro Signore che si sottoponeva a grossi sacrifici corporali nel periodo di Pasqua.
La Passione di Gesù
Padre Francesco da Carfagna ha deposto con quanta immedesimazione vivesse la settimana santa. Portava a piedi scalzi due travicelli legati a forma di Croce con i quali faceva la Via Crucis in chiesa. In quaresima lo stesso atto di penitenza lo faceva nella selva dietro il convento. Nonostante fosse sacerdote faceva con letizia di Spirito i lavori propri dei fratelli laici. Andava a fare la cerca in paese. Amava la solitudine fatta eccezione della ricreazione in comune dopo pranzo e dopo cena. Negli altri momenti della giornata stava sempre ritirato o a leggere o a pregare. Quando venne mandato di famiglia a Talentano, mentre ancora il convento era in costruzione, trovò tanto disturbo alla sua quiete che chiese di essere trasferito in altro luogo. Fr. Benedetto da Cerano ha deposto che mentre era col padre Filippo a Palazzolo per il capitolo generale egli manifestò il suo desiderio di tornare a Velletri. Mentre erano in viaggio un violento temporale li bloccò a Nemi. Padre Visi disse: “E’ segno che Dio non vuole che andiamo a Velletri”. Cessata ogni pioggia non volle più proseguire.
Quella Crostata
Fr. Jacopo da Terratia ha deposto che dopo la sua professione accompagnò il venerabile al ritiro di Valentano dove era stato nominato vicario. A Viterbo un benefattore del convento diede a padre Filippo mezza crostata. Egli la prese non certo per se stesso ma per il giovane fratello che era con lui. Poche miglia dopo la città incontrarono un poveretto, un mendicante molto anziano e malconcio di salute. Padre Visi dopo averlo salutato e abbracciato disse: “Frate Jacopo noi stiamo bene, chi sa come starà questo povero uomo, ha più bisogno di noi diamogli quella crostata”. Fra Jacopo con molta consolazione gliela diede. Il poveraccio restò molto allegro e nel lasciare il padre Filippo disse: “Dio vi accompagni, siate benedetto, pregate Dio per me”. Fr. Pietro da S. Damiano invece ha deposto che il Visi era premuroso e affabile con i suoi religiosi tanto da capire quando questi erano in grave crisi o tentati. Una volta fu lo stesso venerabile ha confidare al citato Fr. Pietro di essere stato tentato: “Vedi Fra Pietro io provo tentazioni grandi, ma bisogna avere pazienza e confidare in Dio, fatevi animo, state allegramente”. Una volta Fr. Pietro andò a trovarlo in cella per confidargli un suo stato di salute morale e padre Visi gli rispose dicendo: “Questa mattina anche sull’altare mi son venute brutte tentazioni: ti dico queste cose acciò ti facci animo”.
L’apostolo del confessionale
Il padre Filippo era un vero apostolo del confessionale egli vi trascorreva gran parte della sua giornata. Di questo sono concordi quasi tutti i testimoni che hanno deposto al suo processo di beatificazione. Molti erano i penitenti che amavano confessarsi da lui perché riusciva con paterne parole a correggere gli errori. Tutti rimanevano affascinati dalla sua oratoria. Anche i frati del convento, quand’era superiore, rimanevano estasiati dal modo con cui faceva loro l’orazione spirituale in capitolo. Una volta durante la messa della notte di Natale al ritiro di Palombara infervorò talmente la gente che usci dalla chiesa con le lacrime agli occhi e come aveva detto loro tornarono nelle loro case recitando il rosario. Mentre era a San Angelo Romano l’arciprete D. Generoso De Martinis si sentì male e un suo novizio corse a chiamarlo affinché gli amministrasse l’olio santo. Padre Filippo nonostante la sua salute gli avesse sfiancato notevolmente le forze non lasciò che quel sacerdote morisse senza il sacramento. Poi rivolto al novizio disse: “Sii benedetto, sii benedetto”. Il segno evidente della sua carità e di quanto gioisse di aver mandato in cielo quell’anima benedetta dalla grazia di Dio.
Gli ultimi anni a S. Angelo Romano
Il venerabile Visi, ha sempre esercitato in grado eroico la virtù della prudenza, egli badava che dalla sua bocca non uscisse mai parola che potesse offendere o scandalizzare il prossimo. Il governatore di Palombara faceva tesoro dei consigli di padre Filippo. Quand’era superiore fu sempre amato e stimato dai suoi frati che lo giudicavano un santo uomo. Una volta mentre la comunità stava per andare a pranzo venne una persona a chiedere di andare ad associare un cadavere. I frati si rimisero al giudizio del guardiano. Padre Filippo diede in escandescenza e poi dopo aver fatto la benedizione della tavola rimase in ginocchio al centro del refettorio per accusare la colpa. Riprese il cucinaro che in tempo di digiuno aveva dato i fagioli per minestra. Una volta in tempo di carnevale bussarono al Convento per dare delle “limosine” in cose commestibili. Il Visi le prese ma poi gli sembrò di averle accettate in abbondanza e si consigliò con i religiosi se doveva mandar via quelle cose. Era di un umiltà edificante e quando parlava con una donna, una sua penitent, lo faceva sempre ad occhi bassi con la faccia rivolta altrove. Quando doveva riprendere qualche religioso lo chiamava nel capitolo delle colpe. Non mancava mai agli atti comuni e a volte per accusare le sue colpe tardava ad andare in refettorio e poi compariva con la mordacchia alla bocca o con una macinella di pietra legata al collo.
Il convento di S. Angelo Romano
Padre Filippo Visi quando aveva ormai cinquant’anni venne mandato dai superiori nel convento di S. Angelo Romano perché la tisi polmonare di cui soffriva da anni si stava ormai acutizzando facendo presagire ormai prossima la fine. Era l’anno 1750 quando il nostro venerabile concittadino lasciò Civitella per raggiungere la terra di Tivoli. Qui soffrì la sua malattia con una cristiana rassegnazione e fino a quando rimase nei ritiri rispettò sempre per intero le mortificazioni, le discipline, i digiuni e le astinenze comuni. Finché il suo stato di salute lo permise egli volle dormire con indosso l’abito religioso, quando il male lo soffocava diceva: “lasciamo fare a Dio”. Soffriva la sua malattia offrendola al Signore e mai volle togliersi di dosso il saio fino a quando il Signore lo chiamò a se il 19 maggio 1754. Faceva delle penitenze asprissime, a tavola arrivò perfino a mangiare carne guasta. Questo accadde quando era di famiglia a Bellegra, a chi gli domandasse come potesse rispose: “Vermini con vermini, così si castiga la golaccia”. A volte per rendere più disgustoso il cibo usava porvi della cenere. La sua scodella era stomachevole anche a lavarla. La cella di padre Filippo era poverissima, non vi stava nulla di superfluo. Una volta restituì al guardiano un calamaio d’ottone che pure gli apparteneva essendo la sola cosa che era rimasta della sua vita secolare perché lo riteneva troppo lussuoso. Fr. Luigi da Roma nei processi di beatificazione ha deposto che dopo la sua morte aveva chiesto un paio di mutande per conservarle come reliquie. Gli venne dato un frammento di esse cucito con tre pezze, una sopra l’altra, segno tangibile della sua straordinaria povertà. Rinunciava alle cose del mondo, per lui la povertà era di una straordinaria, determinante importanza. Se qualche benefattore gli mandava qualcosa da mangiare la offriva al superiore perché ne godessero tutti i religiosi. Fra Leone da Palombara ci racconta un episodio commovente. Una sera passando davanti alla cella del venerabile Filippo vide che questa era al buio e volendo accendere il lume si sentì rispondere dal Visi: “No Fra Leone mio, io mo non ho portato lume in stanza e non ho da render conto a Dio dell’oglio consumato la notte”. Era gelosissimo della povertà, voleva che i religiosi osservassero le costumanze del ritiro secondo egli esempi di San Tommaso da Cori e di Teofilo da Corte. Non voleva che i suoi frati cercassero le “limosine” se non quelle necessarie. Una volta mentre era a Palombara i cercatori facevano la “questua” del vino. Egli informatosi di quanto ne bastava per i bisogni del comunità ordinò che si sospendesse ogni cerca. La sua umiltà lo portava a pregare il Signore affinché non gli dessero cariche all’interno della comunità, faceva del tutto per nascondere le sue doti. Una volta mentre egli era al centro dell’altare intento a presiedere una funzione per l’Immacolata, un sacerdote nonostante che egli avesse intonato l’oremus gli impedì di recitarlo precedendolo dal coro. Finita la funzione in sagrestia incontrò quel sacerdote chiamandolo per nome, si dogliò di questa mancanza aggiungendo che per lo più il servizio era anche in pubblico. Quel sacerdote si mostrò molto alterato nel dire che non sapeva che il padre Filippo era già al centro dell’altare per recitare l’orazione. La mattina seguente padre Visi volle riconciliarsi con quel religioso per lo scrupolo di averlo offeso e non volle salire all’altare prima di averlo incontrato. Questi quando vide il padre Visi in lacrime che lo pregava di perdonarlo rimase estasiato da tanta umiltà e delicatezza di coscienza. Una volta si inginocchiò davanti ad un fratello laico perché, al contrario di un altro, aveva dato un giusto consiglio in merito ad una fabbrica da farsi in convento. Frate Benedetto da Gerano ha deposto nei processi che mentre era internamente tentato di lasciare Palombara per Valentano padre Visi gli disse: “Fra Benedetto tu sei tentato dal demonio, qualche tentazione ti va per il capo, tu mi vuoi lasciare ed andare in Valentano. Fa a mio modo non partire da Palombara”. Il venerabile non sapeva niente delle intenzione del suo confratello. Ormai siamo alla fine, la tisi è ad uno stadio gravissimo. Padre Filippo è spesso privo di forze. I superiori decidono di trasferirlo nell’infermeria dell’Aracoeli dopo un breve soggiorno nel convento di Valmontone. Partendo da S. Angelo Romano, congedandosi dai confratelli, disse che non sarebbe più tornato in quel convento. Infatti morirà dopo pochi giorni dal suo arrivo a Roma.
Muore all’Aracoeli il 19 maggio 1754
La morte del padre Filippo Visi è testimoniata nei processi dal padre Maurizio da Pianisi che all’epoca era studente in teologia nel convento di Santa Maria in Aracoeli. Il detto religioso andò a fare assistenza al venerabile sostituendo un confratello impedito a farlo. Padre Visi gli chiese di raccomandarlo a Dio e di pregare nella messa per l’ anima sua essendo il corpo ormai una schifezza. Mentre lo assisteva, padre Maurizio gli suggerì qualche sentimento spirituale, si riposava e poi pregava con grande ansietà che gli venisse suggerito altro intendimento. Quattro ore prima di morire disse che gli veniva sonno, il religioso che assisteva i moribondi disse che era il sonno della morte. Gli venne dato il viatico e prima di ricevere il sacramento chiese perdono a tutti. Quando un confratello lo confessò aveva gli occhi rivolti al cielo, con la bocca ridente baciando devotamente il Crocefisso. Morì in pace il 19 maggio 1754 all’ età di 50 anni.
I suoi funerali
Secondo l’uso dell’ordine Minore, il cadavere venne subito rivestito dell’abito e portato nella cappelletta dell’infermeria. Aveva un labbro gonfio, aveva un bel colorito e una posizione che ispirava devozione. Il corpo non manifestò mai il rigor mortis e la faccia più passava il tempo e più assumeva un colorito bellissimo. Padre Giovanni Battista ha deposto che appena il corpo del padre Visi fu portato nella basilica di Aracoeli, la gente lo circondò di affetto e devozione, gli baciava le mani e dava altri segni della loro privata devozione. Due ragazzi che nessuno vide più gli tagliarono un pezzo del cordone e uscirono per Roma gridando: “all’Aracoeli è morto un santo”. Crebbe tanto il concorso di popolo che fu necessario chiudere il cadavere in una cappella con il cancello per evitare che restasse nudo. Il corpo venne rimesso in chiesa il giorno seguente ma fu necessario richiuderlo nuovamente nella stessa cappella per salvarlo dalla folla che tagliava i pezzi del suo abito per averne delle reliquie. Venne rivestito di nuovo. Dal giorno della sua morte fino alla sepoltura si ottennero per sua intercessione numerose grazie e miracoli. Frate Francesco dalla Garfagnana ha deposto che mentre il padre Visi era esposto in chiesa delle persone gli asciugavano il sudore che prodigiosamente gli usciva dalla fronte. Mentre il corpo era ancora disteso in chiesa una donna gli baciò i piedi e lo pregò per il figlio “cionco”. Il piccolo cominciò subito a camminare. Una ragazza che camminava con le stampelle si distese sopra il cadavere del venerabile e dopo averlo baciato per due volte fu subito sanata dalle sue infermità. Padre Giuseppe da Roma ha deposto nei processi che quando si avvicinò al cadavere del padre Filippo per tagliargli un pezzo del cappuccio lo trovò ancora caldo nonostante fossero passate circa otto nove ore dalla morte. Padre Filippo venne sepolto davanti alla cappella di San Giacomo vicino alla scala del pulpito. Anche dopo la morte e la sepoltura il concorso di popolo nella basilica di Santa Maria in Aracoeli durò a lungo per implorare dal padre Visi grazie e miracoli che non tardarono ad arrivare.
Torna a Bellegra
L’ 8 luglio 1972 da Santa Maria in Aracoleli il corpo del venerabile Filippo venne portato a Bellegra e consegnato al guardiano del ritiro. Erano presenti il promotore della fede padre Rafel Perez, l’abate ordinario di Subiaco D. Egidio Gavazzi, il cancelliere abbaziale D. Benedetto Cacchioni e altre autorità dell’ordine Minore e dell’ex diocesi di Subiaco.
TRADUZIONE DELLA TARGA DI MARMO CHE CHIUDE IL SEPOLCRO DEL VEN VISI A BELLEGRA
“Qui riposa il Ven. P. Filippo Visi O.F.M.,
che incontrò la morte a Roma nel convento di Aracoeli il 19 maggio 1754
e il cui corpo fu trasportato in questo sacro ritiro
nel quale da vivo dimorò per qualche tempo mentre avrebbe voluto dimorarvi per tutta la vita. 8 luglio 1972”
Grazie e miracoli dopo la sua morte
Dopo la morte del padre Filippo si sono verificati molti e strani prodigi che hanno determinato l’indizione del processo canonico per il riconoscimento eroico delle virtù. Nel settembre del 1754 padre Filippo apparve ad una terziaria del convento veliterno di San Lorenzo. Questa si chiamava Anna Caterina Vasconi. Il confessore di questa giovanetta padre Pio da Poggio gli consigliò di ricorrere alle preghiere del padre Visi per fugare le sue tentazioni contro la fede, la purità e la bestemmia. Una mattina mentre era ancora a letto ma sveglia vide entrare un religioso francescano il quale la salutò dicendo: “Deo Gratis” poi domandò “Mi conoscete?”. La Vasconi esclamò: “Siete il padre Filippo, oh pregate Dio per me, che ne ho tanto bisogno…”. Padre Visi gli fece un segno di Croce verso la gola che istantaneamente guarì e continuò: “Sorella questa è la volontà di Dio, che queste cose patiate e state preparata a maggiori combattimenti. Ma siate certa che la grazia di Dio non vi mancherà ogni qualvolta cercate di amarlo. Patite pure allegramente che quanto più si patisce quaggiù tanto più grande è il premio che vi preparato in paradiso… Così è accaduto a me. Se mentre ero al mondo ho sofferto infermità e altre tribolazioni ora ne sto godendo il premio lo stesso accadrà a voi”. La Vasconi allora gli chiese cosa avesse potuto fare per amare maggiormente il Signore, padre Filippo gli raccomandò l’esercizio eroico delle virtù in particolare quella dell’umiltà. Dopo averla benedetta scomparve non prima di avergli vietato di manifestare la visione. Gli apparve di nuovo nel 1755 e nel 1756 per salvarla dalle suggestioni diaboliche. Nel mese di luglio del 1754 Antonia Ricci, moglie di Nicola Valeri, mentre stava vedendo la processione della Madonna del Carmine venne colpita da un grave malore. Il dr Pier Paolo Manciocchi che la visitò la giudicò affetta da febbre acuta con convulsioni epilettiche. Gli prescrisse dei salassi ma non accadde niente. Dopo dieci giorni era in fin di vita, il marito si fese dare da Cecilia Montagna una lettera scritta di pugno dal padre Filippo. Dopo averla applicata con fede all’inferma vide che questa guarì miracolosamente. Il medico la mattina seguente la trovò guarita e in ottimo stato. Nei processi il dr Manciocchi disse: “la scienza non trova spiegazione alcuna”. Giuseppe Greco guarì da un erpete fierissimo alla coscia che i medici avevano dichiarato inguaribile. Fu padre Bernardino da Velletri a invitarlo a pregare il padre Visi. Il prodigio avvenne dopo che questi aveva inghiottito nell’acqua alcuni filamenti del saio di padre Filippo e applicata sulla parte malata la lettera autografa in possesso di Cecilia Montagna. Il figlio di Ponziano Calderoni non prendeva il latte dalla balia e i medici avevano fatto un cattivo pronostico per questa malattia. Ma venne pregato il Ven. Visi e dopo l’applicazione di un pezzo del suo mantello sul piccolo questi prese a succhiare il latte. Padre Francesco da Vallico mentre dimorava nel convento di San Lorenzo di Velletri cadde procurandosi una brutta frattura con la rottura di una arteria. I medici invano cercavano di bloccare l’emorragia, tanto che stavano per ricorrere al rimedio del fuoco. Padre Demetrio da Roma applicò con fede sulla parte offesa un pezzo dell’abito del padre Visi e il sangue cessò di uscire. Padre Francesco in pochi giorni tornò alla vita normale anche se i medici dicevano che ci sarebbero voluti mesi. Teresa Ferrari affetta da emorragia uterina era ormai prossima alla morte. Per suggerimento del marito pregò il padre Filippo e in quel momento guarì. Loreta Caiola affetta dalla stessa malattia guarì dopo che il venerabile gli apparve ponendole una mano sulla fronte. Colomba Ferrari affetta da ulcere alla gola guarì dopo l’applicazione di una lettera del Visi una paralisi nello stesso modo anche Caterina Ferrari.